Quello che i magistrati sapevano – Carta canta!

Carta canta! È vero, le carte cantano e – come continua il proverbio – “villan dorme”,  ovvero, se anche sei analfabeta e non sai neppure leggere, è sufficiente che tu abbia un documento che possa dimostrare i tuoi diritti, per poter dormire sonni tranquilli.

Ma se carta canta e nessuno la legge, anche i delinquenti possono dormire. E dormire sonni tranquilli.

È questa la storia che ha permesso ai Messina Denaro, per decenni, di rimanere defilati rispetto le loro gravi responsabilità su quanto avveniva nel territorio trapanese, e in particolare del coinvolgimento dell’attuale boss latitante, Matteo Messina Denaro, nelle stragi del ’92.

Il periodo è quello successivo alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, quando vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Paolo Borsellino e i componenti delle rispettive scorte.

Due magistrati, destinati a diventare nel tempo due importanti procuratori, stanno sentendo alcuni collaboratori di giustizia che narrano anni di mafia, traffici, affari, delitti.

A Caltanissetta, intanto, si indaga sulle stragi, e Vincenzo Scarantino assolve al suo compito di “depistatore” accusando innocenti e permettendo ai veri responsabili di non essere individuati dagli inquirenti.

Sono gli anni in cui anche altri “pentiti” assolvono a un ruolo che ancora oggi è tutto da chiarire, indicando in Mariano Agate il rappresentante provinciale di “cosa nostra” trapanese.

Decenni di false piste da seguire, che hanno portato fuori strada gli investigatori, non permettendo neppure di mettere nero su bianco il nome dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, che oggi sappiamo aver pianificato le stragi, che rimase libero e indisturbato fino al ’93, quando si diede alla latitanza.

Gli stessi magistrati che ascoltano e verbalizzano le dichiarazioni di collaboratori di giustizia che raccontano fin dalle origini il “sistema Siino” (quello degli appalti pilotati finito nel dossier mafia-appalti a opera di Mori e De Donno, voluto da Giovanni Falcone e che Borsellino avrebbe voluto venisse ripreso e a lui affidato)  raccolgono anche le dichiarazioni di chi tace sul nome di Matteo Messina Denaro e sminuisce il ruolo del padre Francesco.

Ma “carta canta”, ed è sufficiente leggere alcune deposizioni di collaboratori di giustizia – questa volta seri – che indicano in Francesco Messina Denaro il capo di “cosa nostra” trapanese, quantomeno dalla seconda metà degli anni ’80.

Francesco Messina Denaro, un nome che veniva già messo in relazione alla strage di Via D’Amelio, che avrebbe dovuto indurre gli inquirenti che ascoltavano le dichiarazioni dei vari collaboratori a valutare meglio le propalazioni del “pentito” che ne sminuiva il ruolo, e ad informare i colleghi nisseni di ciò di cui erano a conoscenza, evitando che per decenni seguissero una falsa pista.

Infatti, soltanto in occasione del processo a Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo a Caltanissetta per le stragi del ’92, il pm Gabriele Paci ha fatto piena luce sul vero ruolo dei Messina Denaro, padre e figlio, con il pieno coinvolgimento di quest’ultimo nelle stragi.

Matteo Messina Denaro. Il fantasma, l’innominato, l’impunito.

Ma qual era lo spessore criminale dell’attuale latitante?

Considerato che fino al ’93 non sentì neppure la necessità di darsi alla latitanza, come aveva fatto il padre, dovremmo dedurre che a parte un cognome pesante l’allora ragazzo non doveva aver nulla da temere dagli inquirenti, neppure il fatto che qualcuno un po’ curioso andasse a ficcare il naso nei suoi affari, nelle sue amicizie, negli incontri che teneva, scoprendo così quei summit del ’91 con i vertici di “cosa nostra” regionale, quando pianificò  il massacro dei giudici Falcone e Borsellino.

Ma, ancora una volta, carta canta!

E questa volta, a parlare non è un collaboratore di giustizia, attendibile o meno che fosse.

L’ex maresciallo Carmelo Canale, poi ufficiale dei carabinieri, nell’aprile del ’94, nel corso di un processo, racconta di come i carabinieri dopo l’uccisione di Francesco Accardo (13 giugno 1988), e comunque dopo l’arresto di Mariano Agate, avessero appreso che Francesco Messina Denaro era stato nominato rappresentante provinciale di “cosa nostra” di Trapani.

Una dichiarazione un po’ contraddittoria, visto che prima afferma che non esistevano i collaboratori, ma i carabinieri erano riusciti a sapere (evidentemente da fonti confidenziali – ndr) che il Messina Denaro Francesco era stato nominato rappresentante provinciale, salvo poi dichiarare che erano sue personali deduzioni investigative.

Su un dato, invece, il militare è certo, anche perché documentato da relazioni dei carabinieri che si trovarono ad assistere all’incontro.

Il giorno successivo all’omicidio dell’Accardo (13 giugno 1988), i militari avevano notato la presenza di Matteo Messina Denaro in compagnia di quello che ritenevano essere un presunto killer della cosca di Partanna, tale Casciotta Girolamo.

Ed è sempre Canale che afferma che Matteo Messina Denaro faceva da tramite tra il padre e la famiglia mafiosa di Castelvetrano.

Carta canta! Quantomeno dalla prima metà degli anni ’90, in molti, compreso quelli che poi diventeranno alti magistrati, conoscevano il ruolo provinciale di Francesco Messina Denaro e lo spessore criminale di suo figlio Matteo.

Eppure, né prima delle stragi, nè dopo, e per lunghi decenni, i magistrati nisseni sembra ne sapessero nulla, e continuavano a seguire la falsa pista di Mariano Agate…

Paolo Borsellino

Sarà sempre un alto magistrato palermitano (e non Paolo Borsellino, come ha affermato vergognosamente lo pseudo pentito definito “inquinatore di pozzi” ed “eterodiretto”), ad appena due giorni dal D.L. che prevedeva la possibilità, per gravi e urgenti motivi, che persone detenute per espiare la pena, fossero custodite in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, definendo “estremamente importante” la collaborazione  dello pseudo pentito, a chiederne in via d’urgenza, e su pressante istanza, che venisse autorizzata la detenzione dello stesso in luogo diverso dalle strutture carcerarie.

Tutto questo avveniva pochi giorni prima dell’uccisione di Paolo Borsellino.

Tanta solerzia, non la si era vista neppure nell’avvisare il giudice che a Palermo era arrivato il tritolo a lui destinato, né, tantomeno, nell’affidargli l’indagine su mafia-appalti a cui teneva tantissimo, e che avrebbe ottenuto soltanto la stessa mattina – con una telefonata ricevuta intorno alle sette – del giorno in cui venne ucciso.

Anche sotto questo aspetto, carta canta! (Quando non scompaiono misteriosamente fascicoli e altro, e quando non si perdono nel corso di qualche perquisizione).

Gian J. Morici

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