Un’aula di tribunale. Magistrati, avvocati e imputati. Scene che sembrano replicarsi all’infinito.
È il processo d’Appello sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio, quando morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano,Emanuela Loi,Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, per il quale la Procura Generale ha già invocato la condanna dei tre poliziotti imputati.
Un processo che ha perso la sua notiziabilità, passando quasi in sordina.
Nei giorni scorsi, al processo d’Appello sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i poliziotti del gruppo ‘Falcone e Borsellino’ che indagavano sulle stragi del ’92, accusati di avere creato il falso pentito Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, il pm Maurizio Bonaccorso ha ricordato l’inquietante collaborazione tra la procura di Caltanissetta di allora e il Sisde, facendo riferimento, in particolare, all’incontro avvenuto il giorno successivo alla strage, tra Bruno Contrada, Lorenzo Narracci e il procuratore Giovanni Tinebra.
“Abbiamo una conferma di questa collaborazione negli appunti sull’agenda sequestrata a Bruno Contrada. La collaborazione tra Contrada e Narracci nasce su iniziativa del procuratore Tinebra. Siccome questo rapporto era illecito Contrada chiedeva coperture istituzionali” – ha sostenuto il pm Bonaccorso, non risparmiando le accuse di “omertà istituzionali” a magistrati, esponenti delle forze dell’ordine ed esponenti politici.
Dall’orizzonte giudiziario diversi protagonisti sono scomparsi dalla scena.
Non c’è più Tinebra, protagonista di quell’incontro con appartenenti ai servizi, il cui rapporto – ha ricordato Bonaccorso – era vietato per legge e non portò a nulla, se non a quella che sarà definita la vestizione del ‘pupo’, del falso pentito Vincenzo Scarantino.
È scomparso anche Arnaldo La Barbera, l’ex Capo della Squadra mobile che aveva rivestito la doppia veste di poliziotto e di collaboratore esterno con il Sisde con il nome in codice ‘Rutilius’, finanziato in nero dal servizio segreto, per mantenere il proprio elevato tenore di vita.
Eppure, tanto per le stragi, quanto per il depistaggio, ipotizzando coinvolgimenti esterni a ‘Cosa nostra’ si viene tacciati di complottismo.
Sono iniziate le arringhe difensive per i tre poliziotti per i quali la Procura Generale ha già invocato la condanna a 11 anni e 10 mesi per il commissario Mario Bo, 9 anni e 6 mesi di reclusione per l’ispettore Fabrizio Mattei, e 9 anni e 6 mesi per l’agente Michele Ribaudo.
Nel corso della precedente udienza, dopo che al termine della sua requisitoria il procuratore generale Fabio D’Anna aveva detto che vi era stato un tradimento da parte degli apparati dello Stato che non può essere perdonato, evidenziando la consapevolezza dei poliziotti “che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi”, l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del poliziotto Mario Bo, aveva sostenuto “questo è un processo che poteva essere evitato già dopo la sentenza del così detto ‘Borsellino bis’, quando gli avvocati degli imputati capirono e denunciarono nel corso del dibattimento le anomalie nelle indagini nate dalle dichiarazioni di quelli che venivano considerati collaboratori di giustizia ma che in realtà erano falsi pentiti. Da loro non è nato il depistaggio ma un clamoroso errore giudiziario che vede oggi imputati dei fedeli servitori dello Stato”.
Un errore giudiziario che vedrebbe “tre uomini che hanno fedelmente servito lo Stato italiano, servitori estratti quasi a sorte tra la pletora dei soggetti che sono stati coinvolti nella storia di questo processo. E vi chiedono di continuare a infangare il nome, per coloro che hanno ancora la fortuna di essere tra noi o ancora peggio di infangare la memoria di coloro che non sono più tra noi”.
È stato poi il turno dell’avvocato Giuseppe Seminara, difensore dei poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che ha ricordato come “si contesta agli imputati l’aggravante di avere agito per occultare la responsabilità di altri soggetti nella strage di via D’Amelio. Questa aggravante è contestata anche a Ribaudo e a Mattei, rispettivamente agente e vice sovrintendente della Polizia di Stato. Cioè stiamo parlando degli ultimi due gradi della scala gerarchica che, rispetto al vertice, hanno una tale distanza che parlare di comunicabilità è un’offesa a quello che pensiamo possa avvenire nella normalità. Si tratta di due soggetti che fanno parte degli ultimi gradini della scala gerarchica, e contestare queste accuse è quanto meno singolare”.
La sentenza è attesa il 4 giugno.
Comunque vada, si tratta di una sconfitta per lo Stato che dopo trentadue anni non ha saputo dare risposte certe al perché delle stragi e al coinvolgimento di possibili attori esterni.
Se da più parti emerge la volontà di cristallizzare il periodo stragista come opera solo di ‘Cosa nostra’, e il successivo depistaggio limitatamente a qualche poliziotto, a prescindere dal ruolo nella scala gerarchica, di diverso avviso è l’avvocatessa Rosalba Di Gregorio che difende Giuseppe La Mattina, Cosimo Vernengo e Gaetano Murana, la quale già in precedenza aveva ricordato come da Roma arrivò “l’ordine di risolvere la fase esecutiva e non solo, con il verbo di Scarantino”, criticando chi istruì le indagini e i processi a Caltanissetta, prima che Gaspare Spatuzza sconfessasse Scarantino, definendo i magistrati di quel tempo distrattini’ e rimarcando le presenze ‘tutte istituzionali’ a partire dal lancio Ansa sulla scomparsa della 126, e la nota del Sisde dell’agosto ‘92, che conteneva il canovaccio fatto recitare ai pentiti.
Parole che forse non risultano gradite neppure a quanti fino a non molti mesi fa pretendevano si arrivasse alla verità su quelle stragi mentre oggi sembrano orientati a chiudere quel capitolo perché bisogna andare avanti.
A giorni saranno trascorsi trentadue anni dalla strage di Capaci nella quale persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Un paio di giorni per parlarne ancora, le solite parate, e dopo il nulla, così come avviene da trentadue anni.
Poi, il 19 luglio, sarà il turno della commemorazione di via D’Amelio, e ancora una volta il nulla.
E come ormai sembrano volere in molti – forse in troppi – andiamo avanti, dimenticando che trentadue anni fa cambiò la storia di questo paese.
Gian J. Morici