Delle protezioni accordate al boss latitante Matteo Messina Denaro parlano tutti. Protezioni istituzionali e politiche. Ipotesi, generici pourparler che lasciano il tempo che trovano. Ben diverso provare a capire chi oggi protegga il latitante, chi lo favorì quando organizzava le stragi di Capaci e via D’Amelio, il perché di quelle stragi.
Il magistrato Nino Di Matteo, qualche giorno fa, ha affermato come sia “grave che la latitanza di Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per questi fatti, si protragga da 27 anni. Così come per 43 anni si protrasse latitanza di Provenzano. Situazioni di questo genere non possono non essere anche, in parte, il frutto di coperture istituzionali e politiche. Non è normale che per 27 anni, o 43 anni, non si riesca a catturare un latitante” aggiungendo che nel caso di Matteo Messina Denaro “la gravità è acuita dal fatto che è stato uno dei protagonisti della campagna stragista. Questo lo pone in condizioni, potenzialmente perché è uno dei pochi depositari di segreti inconfessabili, di brandire un’arma micidiale di ricatto nei confronti di chi ha ancora molto da nascondere su quella fase di storia recente”.
Parole, fiumi di parole, e non solo quelle di Di Matteo, che nulla aggiungono o tolgono ai fatti. Non serviva il magistrato Di Matteo per capire che la strage di via D’Amelio non fu solo opera di “cosa nostra” o che comunque dietro quelle stragi si celassero interessi che coinvolgevano il mondo degli affari, della politica, i potentati economici.
“Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti” ha affermato Di Matteo. Ma quali indagini e quali processi hanno permesso di accertare questi passaggi importanti? Per anni si è dato credito al falso pentito Vincenzo Scarantino e soltanto adesso, a distanza di 28 anni dalle stragi, emerge una verità che ha portato a indagare e accusare chi gestì il falso pentito.
Di Matteo, inoltre, sbaglia a indicare come depistaggi ed errori iniziali quelli del ’96, visto che forse non si è accorto di come nel processo in corso a Caltanissetta, che vede Matteo Messina Denaro imputato per le stragi, vien fuori il nome di un altro inquinatore dei pozzi – così lo ha definito il pm Gabriele Paci – che già nel ‘91spostava l’attenzione dai Messina Denaro, padre e figlio, in direzione di altri soggetti che venivano indicati quali capi mafia del trapanese.
Vincenzo Calcara indicò in Mariano Agate il capo provincia di Trapani (anziché Francesco Messina Denaro) e non fece mai il nome di Matteo Messina Denaro. Un paio di settimane fa, con un post sulla sua pagina Facebook, nell’attaccare il pm Paci è tornato a tentare di discolpare il boss latitante dall’accusa di aver progettato, o dato il consenso, alle stragi nella quali morirono i giudici Falcone e Borsellino. Perché?
Eppure, Calcara, evidentemente senza rendersene conto, con il suo post del 9 agosto, tentando di scagionare il boss latitante dall’accusa di aver preso il posto del padre ai vertici della consorteria mafiosa, dichiara, per l’ennesima volta, un fatto importantissimo:
“Quando nell’ autunno del 1991 – ero latitante- ho incontrato Matteo Messina Denaro, gia’ adulto in quanto aveva 29 anni , non sapevo il suo ruolo all’ interno della famiglia mafiosa di Castelvetrano, ma in quella occasione il suo ruolo era anche di partecipare per uccidere il Dott. Paolo Borsellino e ho capito che tra lui e il padre c’era una perfetta simbiosi, come se erano la stessa persona”
Calcara dunque era a conoscenza del ruolo che Matteo Messina Denaro avrebbe avuto nell’esecuzione delle stragi, a prescindere dalla sua posizione gerarchica all’interno della consorteria mafiosa. Eppure in quel lontano 1991, quando dice di aver tentato di salvare la vita a Borsellino, non ne parlò. Matteo Messina Denaro per altri due anni ancora fu lasciato libero di agire indisturbato. Solo nell’estate 1993, mentre avvenivano gli altri attentati dinamitardi, dopo aver trascorso una vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, si diede alla latitanza.
Ha ragione Di Matteo nel sostenere che la latitanza del boss è frutto anche di coperture istituzionali e politiche. Venga però a spiegarci da parte di chi. Venga a spiegarci le opere di depistaggio, il perché per decenni si è voluto ignorare il fatto che Falcone e Borsellino ritenevano di vitale importanza le indagini condotte da Mori e De Donno in materia di mafia-appalti.
Di Calcara, depistaggi e mafia-appalti, abbiamo scritto a lungo (forse per alcuni anche troppo). È di qualche giorno fa l’intervista realizzata dal giornalista Paolo De Chiara al collaboratore di giustizia siciliano Benito Morsicato. Il collaboratore, le cui propalazioni alla stessa maniera di quelle degli altri devono essere attentamente verificate, nel ricostruire gli anni dell’inizio della sua collaborazione con la giustizia, a partire dal 2014, quando cominciò a parlare di Matteo Messina Denaro, dichiara “ho avuto un casino di problemi”.
Morsicato, che nell’intervista afferma di aver fatto arrestare circa 60 persone, tra le quali tutti i parenti di Matteo Messina Denaro e persone molto vicine a lui, racconta di aver paura.
Di cosa ha paura? – chiede il giornalista.
“Nel 2014, quando ho iniziato la mia collaborazione, dissi telefonicamente a mia moglie, ero stato autorizzato dalla Procura di Palermo a poter telefonare ogni giorno dieci minuti solo a mia moglie per sentire lei e le bambine, loro già si trovavano in una località segreta e io in un carcere definito località segreta. Ero a Frosinone. A mia moglie dissi telefonicamente, perché era stata autorizzata a fare un incontro con i genitori in località segreta, di portarmi degli appunti, avevo il vizio di segnarmi tutto anche quando facevo parte dell’organizzazione mafiosa… Mia moglie viene accompagnata con la scorta ad incontrare i genitori e guarda caso viene fatto il furto nella macchina di scorta. Vengono rubate le due valigie dove all’interno c’erano gli appunti, le cose che dovevo dichiarare ai PM…”
Una vicenda che il collaboratore dichiara venne denunciata. A suo parere, chi portò via le due valigie ne conosceva il contenuto, poiché le telefonate sicuramente erano controllate. Una storia che Morsicato collega a un altro episodio accaduto al Tribunale di Palermo.
“Lo sa dove è avvenuto lo stesso furto, nello stesso periodo? Sempre su Matteo Messina Denaro. Così ho collegato… – prosegue il collaboratore – Al Tribunale di Palermo, nell’ufficio della Principato. Sparito un PC con le chiavette, dove c’erano tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle importanti prove su Matteo Messina Denaro. Dentro la Procura. E allora mi son messo un po’ di paura.”
Di questa storia abbiamo scritto più volte, fin da quando venne assolto per la settima volta il finanziere Calogero Pulici, stretto collaboratore della Principato e proprietario sia del pc che delle chiavette scomparse. Anni di indagini sul boss latitante, svanite nel nulla.
Ma non soltanto di questo si tratta, visto che ai supporti telematici scomparsi dall’interno del tribunale, fece seguito la cancellazione di tutti i dati contenuti nel computer sequestrato dagli inquirenti a casa del Pulici. Perché vennero cancellati questi dati sul computer personale del Pulici? Perché nessuno chiese a Pulici neppure di che marca fosse il computer scomparso dall’ufficio della Principato? Per quale motivo, la Guardia di Finanza che operò il sequestro del computer di Pulici presso la sua abitazione, dichiarò che si trattava del computer scomparso dagli uffici della procura, nonostante le palesi differenze persino della dimensione? Errori e sviste dovute all’improvviso venir meno della fiducia nei confronti di Pulici da parte della procura? Chi lo sa, quello che sappiamo per certo, le tante anomalie che riguardarono anche l’indagine su due magistrati, Marcello Viola e Teresa Principato, che durante quel periodo indagavano sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. Due magistrati che proprio per questi fatti vennero indagati con l’infamante accusa dell’aggravante dell’articolo 7, l’aver favorito la mafia. Risulteranno poi estranei a ogni accusa, in quella che ha tutta l’apparenza di una guerra tra toghe.
Una guerra spietata. Viola, Principato e Pulici, nel 2015, sono oggetto di un’anonima lettera di minacce. A differenza di quello che accade in merito gli accertamenti sulla scomparsa dalla procura dei supporti telematici di Pulici, viene immediatamente avviata attività investigativa volta a individuare impronte papillari latenti sulla missiva. A tal proposito vennero effettuati accertamenti tecnici non ripetibili, di tipo biologico, per i quali si comunicava potevano partecipare consulenti o avvocati nominati dalle parti. Ovvero, dai destinatari della missiva minatoria. Inutile chiedersi quale fosse il dubbio, il “buon Giulio Andreotti” avrebbe dato immediatamente una risposta.
È il periodo in cui la magistratura indaga anche sulla scorta delle rivelazioni dell’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, arrestato nel 2013 per truffa al Comune di Palma di Montechiaro, il quale narra agli inquirenti dell’esistenza di una “superloggia” che s’interessa degli appalti in Sicilia, guidata dal boss latitante Matteo Messina Denaro. Sia l’allora procuratore di Trapani Marcello Viola che il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato sentono Tuzzolino. È il finanziere Pulici a mettere a verbale le dichiarazioni dell’architetto che racconta di legami tra mafia, politica e massoneria, tracciando in particolare l’organigramma, la struttura e la mappatura di quest’ultima.
Tuzzolino è un fiume in piena. Racconta di incontri tra soggetti arrestati nell’operazione Cupola, di uomini di ‘cosa nostra’ che entrano a far parte della massoneria per potersi fare accreditare nel territorio del latitante di Castelvetrano.
Come per tutte le propalazioni dei collaboratori di giustizia, servono i riscontri. Era credibile Tuzzolino quando parlava di mafia, politica e massoneria? Era credibile quando dichiarava di conoscere Matteo Messina Denaro e di sapere dove si nascondesse il latitante? Questo forse non lo sapremo mai. Tuzzolino è stato poi dichiarato inattendibile, ma tutto quel che disse era frutto di fantasia? Sappiamo che in ogni caso le dichiarazioni del collaborante in quel momento non potevano essere ignorate e che il partecipare a quelle indagini faceva gola a molti.
Era trascorso qualche anno da quando Francesco Messineo, all’epoca procuratore di Palermo, aveva ordinato 49 arresti in provincia di Agrigento. Tra questi, quello di Leo Sutera, detto “il professore”, un capomafia che secondo la Principato poteva consentire agli inquirenti di arrivare a Matteo Messina Denaro, con il quale era in contatto. Secondo la Principato, le attività d’indagine dei Ros che da un pezzo seguivano le mosse di Leo Sutera, vennero mandate in fumo da quegli improvvidi arresti.
Bruciata quell’indagine, si apriva una nuova pista, proprio nel momento in cui sembrava che a Palermo si potesse arrivare a una collaborazione fattiva tra carabinieri e polizia, a tal punto da pensare a una comune centrale operativa ubicata nell’hangar di Bocca di Falco. Anche la Guardia di Finanza, nella persona del suo comandante, colonnello Francesco Mazzotta, scalpitava per entrare in gioco. È proprio lo stesso Mazzotta che infatti accompagnerà i magistrati Viola e Principato, nonché l’appuntato della Finanza Calogero Pulici, in un giro di perlustrazione con l’elicottero della Guardia di Finanza. Il fatto che Pulici da anni sia un fedele collaboratore della Principato, non può non giocare a favore della Guardia di Finanza per ottenere un ruolo nell’inchiesta.
Cosa accadde dopo non lo sappiamo. A un certo punto qualcosa si incrina nel rapporto con il Mazzotta, tant’è che è lo stesso, nella primavera del 2015, a lamentarsi con il Pulici del fatto che la Guardia di Finanza resti tagliata fuori dalle deleghe. Come se non bastasse, si avanza anche il timore di aver perso il collaborante Tuzzolino.
Calogero Pulici, improvvisamente nel settembre 2015 viene allontanato dalla Procura di Palermo poiché era venuta meno la fiducia nei suoi confronti. Viola e la Principato, indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio con l’aggravante dell’articolo 7, ovvero di aver agevolato la mafia, per avere messo a repentaglio le indagini della Dda di Palermo.
A condurre le indagini, lo stesso colonnello della Guardia di Finanza che aveva accompagnato con l’elicottero del corpo i due magistrati e l’appuntato nel giro di perlustrazione.
Marcello Viola prosciolto nel merito, Teresa Principato assolta in appello e Calogero Pulici assolto per ben sette volte. Per i due magistrati la procura di Caltanissetta aveva chiesto l’archiviazione perché era “processualmente accertato un continuo rapporto di collaborazione e di scambio di atti tra le Autorità Giudiziarie di Trapani e Palermo”. Forse i magistrati titolari delle indagini, che a seguito delle stesse per le quali gli imputati vennero assolti fecero carriera, non tennero conto del rapporto di collaborazione tra due magistrati impegnati in delicate indagini sul latitante Matteo Messina Denaro, ipotizzando persino che avessero favorito la mafia. Così come chi condusse le indagini, che pure sapeva della collaborazione tra Viola e la Principato, forse dimenticò di avere pure accompagnato i due magistrati.
Tra indagini mandate in fumo – come nel caso di quella su Leo Sutera – beghe interne alle forze dell’ordine e alla magistratura, Matteo Messina Denaro continua a godersi beatamente la sua lunga latitanza.
Viola e la Principato, indagati con l’aggravante dell’articolo 7, se anche avessero avuto la velleità di ambire a altri importanti incarichi, in quel momento venivano stoppati. Per Viola era solo la prima volta, visto che di recente, in maniera alquanto anomala, è stata interrotta la sua corsa a procuratore di Roma, nonostante di lui il pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, nel corso di un’intercettazione a Luca Palamara, avesse detto che era l’unico non ricattabile. E su questo, forse per mancanza di coraggio ma non certo per incapacità di analisi, non ci sentiamo di parafrasare il “buon Giulio Andreotti” in merito al pensar male…
Le incognite, purtroppo, rimangono altre alle quali nessuno sembra voler dare una risposta: Perché far partire le operazioni dei depistaggi dal 1996, quando è nel ‘91 che Matteo Messina Denaro organizza le stragi e nonostante un collaboratore di giustizia ne conosca il ruolo omicidiario non ne parla? In che misura incise l’indagine mafia-appalti nel determinare le stragi di Capaci e via D’Amelio? Perché ancora oggi si fa così tanta fatica a parlarne? Era totalmente inattendibile Tuzzolino? Cosa contenevano le chiavette e il pc di Pulici scomparsi dalla Procura?
Sulle brillanti carriere di alcuni magistrati, sulle smanie di protagonismo e gli errori eclatanti, torneremo a breve, raccontando anche di come venne distrutta la possibilità di una collaborazione tra forze dell’ordine che forse avrebbe impedito che il boss stragista restasse uccel di bosco per 27 anni.
Gli antagonismi all’interno delle forze dell’ordine e della magistratura, possono giustificare tutto quello che è accaduto?
Gian J. Morici
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