Autunno 1991 – Castelvetrano, un comune con poco più di 30.000 abitanti, in provincia di Trapani. Non ha certo la dimensione di Palermo, né la triste storia che ne ha fatto la capitale siciliana della mafia. Eppure, è in questo comune, a pochi passi dal più grande parco archeologico d’Europa, che si riunisce il ghota della mafia. E non certo per ammirare i resti dell’antica città greca di Selinunte.
No, nell’autunno del 1991, a portare a Castelvetrano i vertici di “cosa nostra” e il suo gruppo criminale operativo che vede la presenza dei Graviano, dei Madonia, dei Lucchese etc, è la necessità di pianificare le stragi che l’anno successivo insanguineranno la Sicilia consegnando alla storia il sangue innocente di Falcone, della moglie, di Borsellino e degli uomini delle loro rispettive scorte.
Indagini, processi, depistaggi, fanno da triste corollario a una delle pagine più vergognose della storia d’Italia. Dopo decenni trascorsi ad ascoltare criminali che hanno “brillantemente” svolto un ruolo di primo piano nel depistare le indagini, ancora oggi ci ritroviamo a essere spettatori o protagonisti di quel teatrino mediatico-giudiziario che mira a individuare le responsabilità di chi prese parte a una presunta trattativa per fermare le stragi di mafia. Vero, falso, colpevoli o innocenti, poco importa. Quello che invece sembra stia a cuore a molti, è distrarre l’opinione pubblica dall’individuare chi quelle stragi le volle. Chi, eventualmente, trattò con la mafia non per impedirle ma per realizzarle.
Da Scarantino, che si autoaccusò di aver partecipato all’attentato contro il Giudice Paolo Borsellino (salvo poi ritrattare sei anni dopo, dichiarando di essere stato un falso pentito manovrato da altri e trovando in questo conferma nelle dichiarazioni di Spatuzza, autore del furto dell’auto utilizzata per la strage) a Vincenzo Calcara (che accusò Antonio Vaccarino di aver progettato e chiesto a lui di uccidere il Giudice con un fucile di precisione. Smentito poi da tutta una serie di pentiti, da appartenenti alle Forze dell’Ordine e dalle assoluzioni di imputati da lui accusati di crimini mai commessi) è stato un fiorire di falsi pentiti che hanno portato in carcere decine di innocenti – poi scagionati – favorendo così i veri responsabili di quelle morti.
Tra un pentito e l’altro, un depistaggio e l’altro, si arriva finalmente ai primi mesi dello scorso anno quando a Caltanissetta inizia il processo contro Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. Ad accusare – tra gli altri – il super latitante, questa volta non sono uomini come lo Spatola (sulla cui appartenenza a “cosa nostra” dubitava anche il Giudice Borsellino) né il Calcara, bensì da collaboratori di giustizia del calibro di Antonio Guffrè, Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci e altri, la cui attendibilità, ad oggi, pare non possa essere messa in dubbio.
Caltanissetta, dunque, potrebbe rappresentare la pietra miliare nella ricerca della verità sulle stragi del ‘92.
A fare un primo quadro chiaro dei rapporti tra le famiglie trapanesi e quelle delle altre provincie, nel corso del processo a Caltanissetta, è Calogero Germanà, ex Questore scampato a un’attentato nel 1992, il quale parte dalle indagini che riguardano le famiglie agrigentine nella prima metà degli anno ‘80.
In particolare fa riferimento a una telefonata intercorsa tra Carmelo Colletti di Ribera, all’epoca a capo della commissione provinciale di “cosa nostra”, e Antonio Ferro, boss di Canicattì.
Già da quella prima telefonata intercettata, si evince come le famiglie agrigentine abbiano rapporti con le altre provincie, tant’è che si parla di un incontro al quale prendeva parte il boss catanese Nitto Santapaola.
Secondo quanto dichiarato in udienza, la prima perquisizione effettuata in casa dei Messina Denaro fu da lui diretta quando era al Commissariato di Mazara del Vallo ed era legata a personaggi agrigentini. Un’appendice del maxi processo di Agrigento, che riguardava l’intercettazione di Carmelo Colletti.
Dall’escussione di Germanà, si evince come i mafiosi fossero a conoscenza di quanto avveniva in commissariato, tanto che nel corso di un’intercettazione ambientale, li si sentiva commentare un suo rapporto del 1991. Chi aveva fornito ai mafiosi il rapporto dell’allora Dirigente Germanà? A tal proposito non va dimenticato come lo stesso Giudice Borsellino avesse definito “colabrodo” taluni uffici giudiziari, a causa delle fughe di notizie che erano avvenute.
Né si può dimenticare che Antonio Vaccarino, con lo pseudonimo di Svetonio, collaborava con il Sisde, fin quando i servizi non comunicarono ai magistrati che stava agendo per conto loro nella cattura di Matteo Messina Denaro. Il giorno dopo, tutta la stampa del mondo pubblicava la notizia del Sindaco 007. Quali indagini vennero condotte per scoprire l’autore o gli autori della fuga di notizie che bruciò la copertura di Vaccarino? E che dire della figura di Matteo Messina Denaro, già conosciuto alle forze di polizia sul finire degli anni ‘80, ma sconosciuto al pentito Calcara che pur sosteneva di aver fatto parte della famiglia mafiosa di Castelvetrano?
In Sicilia si assiste da oltre un ventennio a percorsi insicuri riguardanti la giustizia che soffre non poco di abomini depistatori che hanno inflitto ingiustamente assurde pene detentive a cittadini innocenti accusati da falsi pentiti manovrati da “menti raffinatissime” tanto autorevolmente denunciate quanto subdolamente “annebbiate”. Si scoprono più facilmente tesori archeologici di quanto non si evidenzino realtà processuali la cui importanza potrebbe chiarire percorsi e strategie mafiose che dovrebbero valutarsi anche in importanti processi in via di svolgimento come questo che vede imputato per stragi il latitante Matteo Messina Denaro. Quale unica regia , raffinata ed inserita nei gangli vitali dello Stato, ha armato e spinto la manovalanza mafiosa stragista? Siamo certi che si voglia far chiarezza su chi volle queste stragi?
Il pentito Calcara, del quale parla anche Giovanni Brusca nel corso di questo processo (oltre ai tanti altri pentiti credibili che lo hanno già sconfessato in più occasioni) affermando che Calcara Vincenzo non ha mai fatto parte della consorteria mafiosa, che si è trattato di un pentito fasullo e che era stato costruito, ancora oggi continua a muovere accuse. I suoi bersagli non sono più il Vice Questore Messineo, Germanà, Vaccarino e altri. Adesso si ricorda dell’esistenza di quel Matteo Messina Denaro del quale non aveva fatto il nome quando iniziò a collaborare; getta ombre sull’allora maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, lasciandone intuire il tradimento in danno del Giudice Borsellino; parla di Francesco Messina Denaro, come colui il quale avrebbe commissionato l’omicidio di Borsellino quando questi era Procuratore a Marsala. Lo stesso Calcara che in precedenza aveva affermato che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo della famiglia mafiosa di Castelvetrano – in quanto latitante – accusando Vaccarino e altri di aver commissionato l’omicidio del Giudice, racconta una storia diversa da quella di allora. Una storia nella quale l’allora maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale (che si occupò di dichiaranti poi scoperti fasulli, come lo Spatola, la Filippello e lo stesso Calcara) idolatrato precedentemente dal pentito, alla domanda di Enza Galluccio (autrice di libri su mafie e relazioni tra Stato e criminalità organizzata) viene così rappresentato:
“nell’arma dei carabinieri c’erano uomini che lavoravano con lui (Borsellino -ndr), ma lo hanno tradito, lo hanno lasciato solo … al suo destino. Se dobbiamo parlare di Canale, io so che ha fatto una buona carriera.
Quando sono stato arrestato, mi avevano sequestrato dei documenti con i nomi di alcune città dell’Australia legati a personaggi potenti di C.N. dove io mi sarei dovuto presentare dopo aver ucciso Borsellino. Tra questi ricordo ancora Rizzo, Stivala, un’organizzazione della chiesa St. Antonio … Avevo scritto tutto utilizzando un codice che avevo spiegato alla presenza di Canale … quegli appunti, quei nomi sono spariti. Ci sono le mie dichiarazioni in cui parlo di quei nomi in codice, sono state firmate da Borsellino e dalla dottoressa Tosi, sostituta di Paolo Borsellino quando era procuratore a Marsala. Non c’è più niente, sparito tutto. Le posso assicurare che da quel momento in poi, Paolo Borsellino non mi ha più fatto incontrare con il maresciallo Canale. Quando gli ho detto che per me era meglio non vederlo più, ha acconsentito. Gli occhi gli lampeggiavano di rabbia perché aveva già iniziato a scoprire qualcosa che, essendo un magistrato, non mi poteva dire…”
Delle due l’una; mente il Calcara oggi nell’accusare Canale di aver tradito il Giudice, o mentiva ieri quando lo osannava?
Che non fosse credibile quando nel 1992 ebbe luogo la cosiddetta la “operazione Palma”, quando Calcara Vincenzo accusava 46 persone di essere i mafiosi del territorio e, a capo degli stessi, Antonio Vaccarino (eletto con regolari votazioni democratiche capomafia in sostituzione di Messina Denaro Francesco, non più in grado di comandare perché latitante) è ormai chiaro anche alle pietre. Che i veri mafiosi fossero i Messina Denaro, Francesco e quel Matteo oggi superlatitante, del quale Calcara si guardò bene di fare il nome, lo si evinceva già dalle segnalazioni fatte dal Capo della Mobile Germanà, dal Vicequestore Messineo e dall’lspettore Cusumano, già negli anni ‘80.
Ma per iniziare a conoscere la realtà mafiosa della provincia di Trapani, l’organigramma delle famiglie, la loro territorialità, bisognerà aspettare la collaborazione di Antonio Patti, primo vero pentito dalle cui dichiarazioni nasce il processo Petrov, oltre 80 imputati, tutti condannati. Una storia ben diversa da quella delle dichiarazioni di Spatola, Filippello, Calcara, Scavuzzo, Grimaldi, raccolte dal maresciallo Canale, che hanno permesso ai veri mafiosi di agire per anni indisturbati e di pianificare le stragi.
Con tali pentiti, i mafiosi dormivano sonni tranquilli. E se la ridevano quando Matteo Messina Denaro dimostrava loro che i falsi collaboratori indicavano persone estranee. Così testimoniato poi da tutti i mafiosi-pentiti del dopo Patti Antonio. Fino all’ultimo, in ordine di tempo, Pellegrino Benedetto di Castelvetrano, che ha verbalizzato in modo inequivocabile quanto precedentemente affermato da tutti gli altri. Calcara lo “aveva fatto convocare in una Caserma CC di Piazza Venezia a Roma” per proporgli l’affare di confermare le sue falsità in cambio di soldi e successo. Avrebbe garantito Canale e i servizi segreti.
I Commissari Germanà e Messineo dovevano essere calunniati e uccisi. E con loro quanti potevano intralciare gli interessi della mafia trapanese. Cosa, e chi, si cela dietro le false accuse dei falsi pentiti? Non v’è dubbio che uno degli aspetti inquietanti sui quali andrebbe fatta piena luce, è quello di carattere politico, dal quale poi dipendono tantissimi altri fattori, come gli aspetti imprenditoriali, gli appalti, la promulgazione di leggi e quanto altro.
Val la pena di ricordare che in quegli anni all’interno della DC, c’erano diverse correnti. A una di queste, in contrapposizione a quella andreottiana, aderiva Vaccarino, ex Sindaco di Castelvetrano poi arrestato per le inverosimili e false accuse di Calcara. Tanto Vaccarino, quanto gli allora ministri Scotti e Martelli, unitamente a Grillo, concordarono l’esclusione dalla Democrazia Cristiana di Vito Ciancimino, il cui spessore mafioso è stato definitivamente acclarato nel corso di numerosi processi.
Un caso se tutti coloro che si contrapposero all’egemonia di Ciancimino e di Andreotti vennero danneggiati irreversibilmente? Ed è ancora un caso se nonostante le false accuse di falsi pentiti, questi ultimi non vengano denunciati dagli stessi giudici che avendoli interrogati si erano resi conto delle falsità dichiarate?
Quanti fedeli servitori dello Stato si sono trovati a dover fare i conti con gli schizzi di fango di false accuse, con trasferimenti provvidenziali per i mafiosi, o, peggio ancora, con le raffiche dei kalashnikov o le cariche di tritolo, piazzate da ignobili mani di mafiosi, ma orchestrate da ben altre menti che non quelle poco argute di una bassa manovalanza che quasi con certezza assoluta viene premiata da raffiche di piombo o di ergastoli.
Soggetti come la Grimaldi, che aveva sostenuto le accuse depistatorie del Calcara, potevano recarsi al Commissariato di Castelvetrano a chiedere documenti investigativi in nome e per conto di “Canale” , indisponendosi alquanto nel registrare l’assoluto diniego dell’Ispettore Cusumano . Quello stesso Ispettore che, informato dell’operazione “Palma”, sostanzialmente vi buttava su il macigno del depistaggio per le plateali falsità che ne stavano alla base. Inascoltato e avviato al pensionamento. Quello stesso ispettore che partecipa alla prima perquisizione a Francesco Messina Denaro e che avendo intuito che l’abitazione da perquisire potrebbe avere un’uscita segreta nel retro, anziché posizionarsi all’ingresso insieme all’allora Commissario Germanà, si pone alle spalle dell’edificio. Un’intuizione brillante che permette al poliziotto di intercettare il Messina Denaro mentre tenta di allontanarsi furtivamente dalla propria abitazione.
Il ruolo depistatorio di Calcara è ormai bruciato. Come ogni ingranaggio a usura, non serve più, nonostante lo stesso continui a chiedere di essere sentito e nonostante, purtroppo, gli eredi di Eroi come il Giudice Borsellino, gli abbiano consegnato una fiducia certamente immeritata e ottenuta con l’inganno. Matteo Messina Denaro, fu il vero regista al quale si devono le false accuse del Calcara, compreso quella mossa a Vaccarino di essere responsabile dell’omicidio Lipari ( gli assassini sono stati individuati e condannati. Sinacori compreso) affinché potesse agire indisturbato e progettare le stragi del ‘92.
A Castelvetrano, si tennero i summit mafiosi, preludio delle stragi, con soggetti politici. Così gridava Furnari Saverio a Pianosa prima di suicidarsi per essere stato tradito e abbandonato dai suoi sodali.
Falcone e Borsellino, pagarono con la loro vita, e con quella di chi si trovarono accanto, l’aver cercato le vere menti criminali raffinatissime che stanno dietro questa marmaglia di zotici esecutori di ordini.
In pubblica udienza, durante il processo d’appello a suo carico, Vaccarino ricordò le ultime parole del Giudice Borsellino dopo l’interrogatorio presso il carcere dell’Ucciardone: “se anche questa circostanza è falsa come tutto il resto, Vaccarino torna a casa e Calcara e chi lo ha manovrato andranno in galera”.
Purtroppo, la domenica successiva, un’ignobile mano assassina, asservita a menti criminali contorte ma raffinate, in via D’Amelio metteva fine alla vita del Giudice e della sua scorta.
Perché nonostante le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili nel corso di questi ultimi venti anni, dimostrano una contraffazione della verità a opera di appartenenti alle Istituzioni, non viene sentito dai giudici un testimone che ha dichiarato la propria disponibilità a raccontare degli incontri tenutisi a Castelvetrano, alla presenza di Matteo Messina Denaro, che videro la partecipazione di soggetti politici? Un testimone che avrebbe partecipato a quegli incontri e che oggi sarebbe disposto a darne testimonianza.
Per anni si è dato credito a falsi pentiti del calibro di Scarantino, Spatola, Calcara e altri, che con le loro dichiarazioni hanno allontanato gli inquirenti dalla verità. Se è vero quanto dichiarato da Brusca nel corso delle udienze che vedono a Caltanissetta Matteo Messina Denaro imputato per le stragi del ‘92, ovvero che il super-latitante Messina Denaro non si preoccupava delle dichiarazioni di Calcara, Spatola e Filippello perché non facevano parte di “cosa nostra” e quindi “non ce ne fregava un tubo”, non sarebbe il caso di ascoltare questo testimone che è già stato sentito dagli investigatori?
Gli stessi familiari delle vittime – senza per questo commettere gli errori fatti in precedenza lasciandosi andare a dar credito e fiducia assoluta a coloro i quali si sono dimostrati essere falsi pentiti – perché non chiedono che venga sentito quello che ad oggi potrebbe essere uno dei pochi testimoni oculari, ancora in vita, di quegli incontri?
“Si può scegliere tra una bugia che fa vivere o una verità che fa morire” (Tobias Grüterich). E forse il desiderio di vivere è tale che la verità è meglio che resti definitivamente sepolta con i morti.
Gian J. Morici
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