

“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.” E in fondo al pozzo scopri quanto siano vere le parole che Leonardo Sciascia fa pronunciare nel suo “Il giorno della civetta”.
La vicenda Palamara è zeppa di verità, più o meno celate, più o meno riflesse, ma cosa c’è in fondo al pozzo?
Una certezza c’è: non tutta la Magistratura è quella che viene fuori dal libro-intervista “Il Sistema”. E questo ce lo dice lo stesso Luca Palamara nell’ammettere che i giochi delle correnti finiscono con il penalizzare chi non ne fa parte.
Anche su questo vanno fatti i dovuti distinguo, non tutti i magistrati che aderiscono all’una o all’altra corrente risultano favoriti rispetto altri.
“Non è l’Arena”
La puntata di “Non è l’Arena” su La7, sostanzialmente verteva su temi che stanno a cuore al conduttore Massimo Giletti, la vicenda Bonafede-Di Matteo e l’attualissima, quanto presunta, Trattativa Stato-mafia.

Eh no, caro Giletti, il tentativo di ricondurre tutto a Trattativa è stato fin troppo palese. Il mancato incarico politico a Di Matteo è politico. Non c’entrano le correnti né, tantomeno, il ruolo da magistrato.
Un’altra certezza, è quella che Palamara non va santificato né demonizzato. Il problema va ben al di là da quello che rappresenta, o meglio ha rappresentato, l’ex presidente dell’Anm, al quale certamente non può essere addebitata la nascita del sistema correntizio né il carrierismo sfrenato che ha portato parte della magistratura a essere coinvolta in giochi di potere fine a sé stesso, gettando ombre anche su quella parte – che è la maggioranza – che lavora con serietà lontano da riflettori e passerelle mediatiche.
I criteri per le nomine dei magistrati

Alla base dei problemi che oggi si trova a vivere la Magistratura, la commistione con la politica, le interferenze reciproche e forse una certa mancanza di coraggio nell’affrontare la questione delle nomine illegittime che hanno portato ai vertici di procure e tribunali magistrati che avevano meno titoli, esperienza o anzianità rispetto altri.
Spesso, troppo spesso, viene citato il nome di Nino Meli, ingiustamente “colpevole” di essere stato preferito a Falcone per sostituire Antonino Caponnetto a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale nel gennaio 1988.
Una nomina che comunque aveva una sua logica e trovava conforto in un criterio di valutazione che, tanto prima, quanto dopo, trovò applicazione anche in altri casi: l’anzianità!
Poi, e questo lo dice Palamara, poco oltre la metà del primo decennio del duemila, cambiano i criteri di valutazione che vedranno prevalere i curriculum, gli incarichi direttivi, l’esperienza. Quegli stessi criteri di valutazione e quella discrezionalità che ha portato a tutto quello che oggi viene messo nuovamente in discussione.
Tra i tanti casi messi in discussione, ce n’è uno in particolare che sembra gradito a tutti e che rappresenta quella continuità che oggi si può riscontrare nel siluramento di Marcello Viola alla procura di Roma e la successiva nomina di Michele Prestipino.
Francesco Lo Voi, il magistrato che nei giorni successivi alla strage di via d’Amelio, fu tra coloro i quali che non aderirono all’appello di altri colleghi in polemica con il procuratore Pietro Giammanco, che, proprio per quanto era avvenuto, decisero di presentarsi quali dimissionari.

Stiamo parlando di un periodo particolare, ancora pieno di ombre, durante il quale Giammanco era entrato in forte contrasto con Paolo Borsellino, che subito dopo la strage di Capaci era interessato a portare avanti l’inchiesta mafia-appalti.
A non condividere le accuse a Giammanco, anche Pignatone, Lo Forte, Natoli e altri.
Una spaccatura interna alla magistratura palermitana che fece molto discutere.
Consigliere del Csm nel periodo che va dal 2002 al 2006, Lo Voi, dopo i 4 anni della consiliatura rientra a Palermo come sostituto pg., e nel 2006 appoggia Pietro Grasso nella corsa alla procura nazionale antimafia, votando poi favorevolmente per il grassiano Giuseppe Pignatone, a capo della procura di Palermo.
Nel 2014 è un candidato gradito a tutti nella corsa alla poltrona di procuratore capo di Palermo – più dei colleghi Sergio Lari e Guido Lo Forte, più titolati di lui nell’aspirare a dirigere la procura di Palermo – e incassa i voti dei consiglieri del centro destra e dei laici del Pd.
Da Palermo a Roma

Lo ritroviamo (Lo Voi) candidato al vertice della procura di Roma, quando il 23 maggio 2019, nel decidere il successore dell’uscente Pignatone, la Quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura assegnerà 4 voti a Marcello Viola e uno ciascuno a Francesco Lo Voi e Giuseppe Creazzo.
Pochi giorni dopo, la fuga di notizie sul Palamaragate fece saltare la nomina di Viola (non coinvolto nella vicenda e vittima delle trame che si muovevano dietro la nomina del successore di Pignatone), fin quando il 14.01.20, la Commissione tornava a formulare proposte di conferimento dell’incarico di procuratore capo della capitale, che vedevano in corsa Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, il pm di Firenze Giuseppe Creazzo e Michele Prestipino. Viola era fuori.
A occupare in ultimo la poltrona, sarà Prestipino, il quale, come Lo Voi, rappresentava la continuità con Pignatone.
Secondo i legali di Viola che hanno presentato il ricorso al Tar contro la nomina di Prestipino a procuratore di Roma, il Csm, nonostante abbia ammesso il mancato coinvolgimento di Viola rispetto al procedimento di Perugia e ritenendo inoltre che lo stesso sia parte offesa rispetto le trame di altri, aveva illegittimamente revocato la proposta a favore del procuratore generale di Firenze senza spiegarne la motivazione e omettendo di valutare i numerosi titoli e le esperienze di Viola.

Inoltre, il Csm avrebbe ritenuto erroneamente prevalente l’esperienza di Prestipino in materia di criminalità organizzata, non avendo tenuto in considerazione le esperienze di Viola quale componente della DDA di Palermo, quale GIP presso il Tribunale di Palermo e quale procuratore di Trapani.
Una storia che si ripete, e che lo stesso Palamara ricorda nel suo libro-intervista a proposito della nomina di Lo Voi a Palermo.
Palamara racconta di come per la nomina alla procura generale di Palermo fossero in corsa Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, e di come lui e Pignatone si recarono a casa di Riccardo Fuzio, all’epoca membro del Csm, per decidere la strategia da adoperare per spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un’assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra per assicurare a Lo Forte il posto di Messineo a capo della procura di Palermo.
Bisognava convincere Lo Forte a ritirare la propria candidatura.
Cosa c’entra il procuratore di Roma con una nomina a Palermo?
“Niente, in punta di logica e pure di diritto – risponde Palamara – Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del «Sistema», anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Napolitano”.
Sarebbe stato proprio l’intervento di Napolitano a far slittare poi la nomina di Lo Forte che successivamente salterà a seguito dell’intervento di Pignatone che imporrà Lo Voi, nonostante non fosse abbastanza titolato, non come gli altri due, e in più in fuori ruolo a Bruxelles.
La Trattativa e mafia-appalti
A Giletti però interessa molto di più la figura di Di Matteo, e quella presunta Trattativa che non trova d’accordo neppure gli stessi magistrati, divisi sul binomio che accomuna l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e la presunta Trattativa che vede accusati quegli stessi ufficiali del Ros ai quali Borsellino avrebbe voluto affidare le indagini su mafia-appalti che avevano già condotto per conto di Giovanni Falcone.

Senza prendere neppure in considerazione quanto emerso a Caltanissetta nel corso del processo a Matteo Messina Denaro, condannato per le stragi del ’92, e quanto riportato nella sentenza del Borsellino quater emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta.
In questo contesto, vengono trascurate anche le istanze dei famigliari del Giudice Borsellino, ai quali poco importano le primogeniture, le passerelle o i conflitti tra magistrati, ma che hanno a cuore soltanto l’obiettivo che emerga la verità.
C’è invece purtroppo chi si innamora di un’idea e non esita ad attaccare violentemente l’operato dei magistrati nisseni – così come ha fatto Salvatore Borsellino, fratello del giudice – ai quali andrebbe riconosciuto il merito di aver portato alla luce ben più di un depistaggio, e di aver provato a ricostruire la vera genesi delle stragi, senza lasciarsi condizionare da teoremi o da smanie di protagonismo.
Mafia-appalti sembra un argomento da non trattare. Uno di quei fili scoperti dell’alta tensione, che rischia di folgorare magistrati, investigatori e persino giornalisti. Quei giornalisti che non sono “organi ufficiosi” di nessuna procura, ma che cercano semplicemente la verità.
Del resto, se veramente Falcone e Borsellino morirono per quell’inchiesta, il rischio da correre è veramente grosso e non tutti sono disposti a correrlo. Sicuramente non Giletti.
Il Triangolo
Esiste un triangolo giudiziario ai cui vertici si pongono Roma, Palermo e Caltanissetta. Il filo conduttore Palermo-Roma lo si evince dal libro-intervista di Palamara.
E Caltanissetta?
Caltanissetta dovrebbe essere l’occhio vigile sulla capitale giudiziaria siciliana, ma cosa accadrebbe se nel gioco delle correnti si dovesse determinare l’assegnazione del ruolo a capo della procura nissena di un magistrato proveniente da Palermo?
Nulla, salvo il fatto che potrebbe doversi ritrovare a condurre indagini su colleghi con i quali fino al giorno prima ha condiviso ufficio, indagini e – perché no – momenti di vita privata. Una scelta inopportuna, ma che non può essere apriori esclusa, visto che i precedenti non mancano.
Dopo Palamara?

Secondo quanto riportato dall’Ansa, “il cosiddetto caso Palamara sarà uno dei temi della prossima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati convocato per sabato prossimo. Allo stato sono 27 le iniziative disciplinari intraprese dalla procura generale della Cassazione nei confronti di altrettanti magistrati per i contenuti delle loro telefonate o delle loro chat con l’ex presidente dell’Anm condannato dallaSezione disciplinare del Csm alla rimozione dall’ordine giudiziario, sentenza non ancora esecutiva e soggetta a impugnazione. Mentre sono un centinaio i fascicoli aperti al Csm per verificare la possibilità di intervenire con il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale dei magistrati intercettati o le cui chat erano nel cellulare di Palamara sequestrato dalla procura di Perugia. Sono stati proprio i pm di Perugia a inviare le carte alla procura generale e al Csm. Le aveva chieste anche l’Associazione nazionale magistrati per deferire ai probiviri i propri iscritti responsabili di violazioni del codice etico dei magistrati. Ma sinora la documentazione richiesta non è stata trasmessa al sindacato delle toghe. Anche di questo, di come cioè procedere vista la situazione, discuterà sabato il Comitato direttivo centrale”.
Chi ne fa le spese?
Sarà sufficiente questo a fare chiarezza e pulizia all’interno di quel Sistema descritto da Palamara?

Se così non fosse, e se non si arrivasse a rimediare anche agli errori del passato, avremmo visto riflessi il sole o la luna nel pozzo, ma non quella verità che si trova nel fondo.
Gli unici a farne le spese sarebbero i magistrati che pur non avendo fatto parte del Sistema oggi sono guardati con sospetto dall’opinione pubblica. E un colpevole, non certo l’unico, sul quale verrebbero scaricate tutte le responsabilità di un gioco nel quale il mazziere, nonostante il suo ruolo, forse non era l’ex presidente dell’Anm.
Gian J. Morici
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