Quella mattina l’aria era ferma e pesante, densa, così densa da sentire di poterla toccare, di doverla spostare per muoversi, per respirare.
Masi aveva dormito quasi niente.
Il caldo, la troppa stanchezza, le ansie, i ricordi che troppo spesso invadevano lo spazio dei sogni.
Stese le braccia lentamente verso l’alto, quasi a spostare via il macigno che si sentiva sul petto. Sgranò gli occhi verso la luce che filtrava dalle persiane disegnando grossi e vivaci coriandoli sulle pareti della piccola stanza in affitto. Silenzio. Le sembrò di non ricordare altro silenzio simile se non quello di cui aveva goduto sott’acqua, quando ancora faceva immersioni, quello totale e breve delle apnee solitarie, interrotto soltanto dal sottile ronzio della pressione che la avvisava che era ora di compensare. O magari di risalire a respirare. E fu quell’insolito silenzio forse, o quel peso sul petto o quell’aria densa che stendendo le braccia aveva faticato a spostare che la indussero di colpo a tossire forte e ad inspirare profondamente, quasi a sincerarsi di essere lì, nel suo letto, viva, sveglia, presente, reale.
Non che le sarebbe dispiaciuto particolarmente non esserci più, anzi. Ci aveva pensato spesso. Alle continue battaglie quotidiane, all’inutilità delle stesse, alla sua stanchezza, di tutto. Solo non le era piaciuta l’idea che fosse così, il dopo. Così non come stare sott’acqua, che quello le piaceva eccome, avrebbe dato ogni cosa, avendola, per poterci tornare, per averne la forza, lo spirito giusto, la calma, perché quella conta più di ogni cosa, ma così come le sembrava fosse ogni giorno della sua vita: fermo, pesante, denso, un macigno sul petto da provare a spostare, che non ti fa respirare.
Immobile tese ancora le orecchie. Nulla. Provò a compensare, pensando a uno scherzo della pressione, col caldo poteva accadere. Silenzio. Eppure le piccole luci sui muri erano nette e brillanti, il giorno era fatto. Possibile che fosse così caldo, l’aria così densa e pesante che anche gli uccelli avessero scelto di restare immobili, di non cantare?
Prima di uscire sul balcone si accese una sigaretta. L’ossigeno prima di tutto, pensò, ed un sorriso amaro fu la prima espressione che il suo viso compose, la stessa di ogni mattino a quel rito. Poi le scappò un sorriso più pieno. Sì la battuta era quella di sempre. Amara come sempre. Consapevole del vizio e dell’errore. Ma era anche la amara battuta che aveva imparato dagli amici del diving che la prendevano in giro quando, appena fuori dall’acqua, a volte ancora a metà sulla scaletta del barcone con il quale si usciva in gruppo, tendeva le braccia a scavare borse e borsoni alla ricerca delle sue sigarette.
Fuori era identico a dentro. Tutto era assolutamente immobile. Persino il fumo. Restava lì, dove lei lo espirava, incapace di scegliere un luogo in cui andare, fino a dissolversi nell’attesa.
Sarà un giorno lento e lunghissimo.
Nel bagno trovò lo specchio appannato dalla condensa. Non che sentisse il bisogno di guardarsi, era un pezzo che la cosa non le interessava, ma le venne istintivo pulirlo. Altrettanto d’istinto lo sguardo le cadde sul solco accanto alle labbra. Sui solchi, ma quello di destra era sempre stato più marcato, e quindi era quello, uno, che da sempre le attirava l’occhio. Le rughe di espressione. Così si chiamavano. Certo ormai non c’erano più solo quelle, anche se Masi aveva da tempo smesso di credere a quel che vedeva allo specchio. Si era convinta che la ingannasse. Che l’immagine che le restituiva fosse un’immagine mutuata dalla memoria, che la memoria, il ricordo di sé la trasformassero per far sì che si riconoscesse. Non poteva giustificare altrimenti il fatto che lì, allo specchio, si riconosceva, mentre non era così nelle foto, dove stentava a credere che fosse lei. Era il solco a convincerla. Quello del sorriso. Scosse il capo, a disapprovarlo, poi si ritrovò a scrutarsi gli angoli della bocca. All’insù. Giorni su giorni, di mesi su mesi, di anni su anni, lunghissimi, lenti e pesanti, e gli angoli della sua bocca erano rimasti all’insù. La forma di un sorriso mai spento.
Aveva trascorso una pessima mattinata il giorno precedente, fuori gli uffici del Tribunale. Le avevano detto che lì c’era un gran movimento, certo non quello giocoso e goliardico dei “salotti” della città, né quello quasi vacanziero dei centri commerciali o delle aree fieristiche, ma in mancanza d’altro e volendo ottimizzare i tempi, considerando il caldo di quelle giornate, poteva essere un buon posto dove racimolare qualche guadagno. Insomma la frequentazione era buona e la fretta a volte è una buona complice. Ed effettivamente le cose non erano andate poi tanto male. Masi aveva “venduto” molte più parole di quelle che pensava, tante da dover tornare a casa, a pranzo, a prenderne ancora per il pomeriggio. “Vendeva” parole Masi. Beh avrebbe preferito vendere altro. Le sue passioni magari. I suoi studi, le sue inclinazioni. Ma non c’era posto per lei. O per non svendersi. E quel letto e quel bagno doveva pagarselo. Così si era inventata un “lavoro”. Doveva vederlo così, bisognava vederlo così e in fondo lo era se le prendeva giornate intere, in cui leggeva, selezionava, scriveva, stampava, tagliava, organizzava valanghe di piccole storie da regalare alla gente. Da “vendere” in cambio di una breve emozione. “Fai come quelli che danno i santini” qualcuno le aveva detto. Lei ci aveva sorriso, anche su questo, di un sorriso amaro, come quello del mattino, ma poi aveva alzato la testa orgogliosa “Mi ci mantengo, ci vivo. E non c’è nessuno che mi comanda.”
“Nessuno che mi comanda.” Lo aveva pensato forte, più forte di sempre, davanti a quell’ufficio grigio, dello stesso colore dei volti che le passavano avanti distratti, immutabili anche davanti alle parole che finivano per fermarsi a comprare. “Sono professionisti” aveva pensato, “e sono infelici. Il tempo non gli appartiene, sono schiavi del tempo e del loro lavoro.” Guardava i volti Masi, sotto gli occhiali da sole costosi, la pelle abbronzata, il trucco sobrio e perfetto, studiato, i capelli in ordine, le unghie laccate, le mani curate. Niente solchi. E gli angoli delle labbra piegati all’ingiù, anche quando riusciva a strappare un sorriso, fugace, magari a quelli più giovani, o a quelli più anziani. Guardava i vestiti Masi. Sì curati, certo, non proprio tutti, ma quasi, ma il gusto? E la personalità? E il valorizzarsi? Lei non aveva che poche pezze, non c’era altro modo di qualificarle, ma per nulla al mondo ne avrebbe indossata qualcuna non “sua”, non adatta a lei, che non le avesse donato.
Ora si guardava gli angoli della bocca all’insù. E sentiva sulla pelle l’aria ferma e pesante di un nuovo giorno lento e lunghissimo, difficile da respirare. Uguale, terribilmente, inevitabilmente uguale a tutti gli altri giorni della sua vita. Della sua ultima vita. Non aveva sogni Masi. Forse non li aveva mai avuti, forse non ne aveva avuto il tempo, forse erano finiti ancora prima di nascere. E non ne aveva inseguiti, piegandosi, combattendo per farlo, fino a spegnersi. Fino a cambiarle il disegno delle labbra. Aveva paura Masi. Ogni giorno. E di notte faticava a dormire. Ma c’era tempo, un sacco di tempo, per sorridere. “Tanto se piango, non cambia lo stesso.”
Mentre si vestiva un alito di vento le accarezzò lieve la schiena regalandole un brivido. Gli uccelli cominciarono a cantare.