Prosegue a Caltanissetta il processo a carico di Matteo Messina Denaro, boss latitante di Castelvetrano, ritenuto tra i mandanti delle stragi mafiose del 1992.
All’udienza di oggi 25 ottobre (ieri per chi legge) nel corso della quale avrebbe dovuto deporre il pentito Carlo Zichitella – che non ha preso parte per ragioni di salute – è stata escussa Giuseppa, conosciuta come Giusi, Vitale, primo boss in gonnella e prima pentita di spessore nella storia di “cosa nostra”.
Giusi, sorella di Vito e Leonardo Vitale, boss di Partitico legati all’ala stragista dei corleonesi, in particolare a Bagarella e Riina, rispondendo alle domande del pm Gabriele Paci, ha ricordato come nei primi mesi del ’92, anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, a Valguarnera, in territorio di Partinico, dove i Vitale conducevano la loro attività di allevatori, si tenne una riunione alla quale presero parte personaggi di spicco dei mandamenti del palermitano e del trapanese.
La Vitale – che all’epoca dei fatti era appena ventenne – assolveva al ruolo a cui erano destinate le donne di mafia, eseguendo gli ordini dei fratelli, prestandosi a fare da “postino” e occupandosi del vettovagliamento quando richiesto. Non era ancora la Giusi Vitale che scalati i vertici del mandamento di Partinico dopo l’arresto dei fratelli, avrebbe gestito gli affari di mafia, arrivando anche a commissionare gravi fatti di sangue.
Giusi Vitale, quel giorno del ‘92, fu incaricata dal fratello Leonardo – non ancora latitante – di andare a prendere dei panini, che sarebbero serviti per le persone che stava aspettando, e poi allontanarsi dalla masseria. A incuriosire la ragazza, l’arrivo di numerose automobili, da una delle quali scese un vescovo. Dalle conversazioni tra i fratelli Leonardo e Vito, avrebbe poi saputo che in realtà l’alto prelato altri non era che il capomafia Bernardo Provenzano. L’incontro tra capi mafia, si era reso necessario per redimere alcune fratture interne alle famiglie di “cosa nostra”. Alla domanda del pm se ricordasse i nomi dei presenti al summit, la Vitale ha indicato Bagarella, Riina, Provenzano, Geraci e il padre di Matteo Messina Denaro, precisando poi, su domanda del pubblico ministero, come in verità non si trattasse di Francesco Messina Denaro ma del figlio Matteo. Una precisazione che aveva sentito nel corso del dialogo tra i suoi fratelli, quando Leonardo, rivolgendosi al fratello più piccolo, Vito, aveva spiegato che quello presente non era Francesco Messina Denaro ma Matteo, poiché l’anziano boss, non stando bene in salute, aveva dato incarico al figlio affinché lo rappresentasse.
Dalle successive domande e risposte, è emerso come nonostante la reggenza dell’organizzazione criminale fosse passata ufficialmente di padre in figlio soltanto nel ’98, a seguito della morte del primo, in realtà da diverso tempo Matteo Messina Denaro faceva le veci del padre, tanto che Leonardo Vitale aveva ricevuto da Bagarella l’indicazione di Matteo come persona a cui fare riferimento nel trapanese. Una circostanza questa che, nel confermare le riunioni del ’91 a Castelvetrano nel corso delle quali vennero pianificate le stragi dell’anno successivo, avvalora, qualora fosse necessario, quanto dichiarato da un testimone. Un testimone che ha dichiarato la propria disponibilità a raccontare degli incontri tenutisi a Castelvetrano alla presenza di Matteo Messina Denaro, che videro la partecipazione di soggetti politici, che a differenza di quanto accaduto con falsi pentiti che hanno allontanato gli inquirenti dalla verità, nonostante sia stato sentito dagli investigatori, ancora oggi non viene ascoltato dai giudici.
Nell’aula della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, alla presenza della Corte, degli avvocati della difesa, dell’accusa, nella totale assenza delle parti civili e di pubblico, le parole di Giusi Vitale, che avrebbero dovuto indurre a ben altre domande, cadono nel vuoto. Nessuno infatti si chiede come mai quel tal Vincenzo Calcara, ex presunto pentito di mafia che iniziò a collaborare con la giustizia nel 1991, non avesse mai fatto il nome di Matteo Messina Denaro, nonostante, a suo dire, lui stesso fosse uomo di fiducia del padre, tanto da aver ricevuto incarichi di grande prestigio all’interno di “cosa nostra”, come il dover uccidere il Giudice Paolo Borsellino, il trasporto di dieci miliardi vecchie lire da consegnare a Marcinkus, gli incontri con uomini come Giulio Andreotti (dinanzi al quale afferma di aver commesso un omicidio), il notaio Albano e altri, per terminare con l’aver preso parte al trasporto del tritolo per l’attentato a Paolo Borsellino.
Una ragazzetta di venti anni, era a conoscenza del fatto che Matteo Messina Denaro faceva le veci del padre; l’uomo di fiducia, l’uomo d’onore “riservato”, ignorava il ruolo dell’attuale boss latitante che nel ’91, prima che Calcara venisse arrestato e si “pentisse”, partecipava agli incontri per progettare le stragi. È credibile tutto questo? A giudicare da alcune sentenze, sembrerebbe proprio di sì. Quale fu il ruolo di Calcara e del suo pentimento? Considerato lo spessore del presunto pentito (è sufficiente vedere uno dei tanti video di sue interviste per comprendere chi sia il soggetto) il ruolo che ebbe in un progetto volto a distrarre le attenzioni degli inquirenti dai Messina Denaro per concentrarle su altri che non c’entravano nulla con la mafia né tantomeno con i progetti omicidiari in danno di Borsellino, fu soltanto quello di utile strumento nelle mani di ben altre menti.
Gli stessi Riina, Provenzano e i Messina Denaro, macellai di bassa lega, furono utilizzati dalle stesse raffinate menti che agirono in ombra affinché si compissero le stragi. A determinare la nascita e la morte di governi, l’economia e le sorti del Paese, non fu certo il Riina di turno che oltre a rivendicare le stragi si fece vanto di aver fatto fare la “fine del tonno” a Falcone, senza capire che a lui avevano fatto fare la vita del sorcio per poi morire come un ratto in una fogna, mentre altri hanno goduto degli immensi capitali accumulati e di quell’esercizio del potere tanto caro ai boss di “cosa nostra”. Piccole menti insignificanti dinanzi quelle ben più raffinate che ne hanno tirato le fila traendone indisturbati enormi vantaggi.
Ma torniamo a quella parte infinitesimale che è Calcara, del quale non varrebbe neppure la pena di scrivere se non fosse per il ruolo che ha avuto quale strumento di un depistaggio che andrebbe meglio attenzionato. Potevano i giudici credere a Calcara? Potevano non accorgersi che le sue dichiarazioni, contraddittorie e mirate in danno di chi infastidiva “cosa nostra”, erano funzionali a mantenere in ombra chi progettava le stragi? Al processo in corso a Caltanissetta, l’allora commissario Rino Germanà ha dichiarato di essere venuto a conoscenza di incontri tra pentiti, fra i quali Calcara, che avevano lo scopo di infangare lui, l’allora Vicequestore Michele Messineo e altri che ostacolavano gli interessi mafiosi dei Messina Denaro. Di tutto questo non si era accorto nessuno. Eppure sarebbe stato sufficiente, per un qualsiasi giudice, leggere attentamente le carte processuali e le verbalizzazioni per rendersi conto delle falsità del pentito.
Calcara, che aveva accusato Antonio Vaccarino di far parte di “cosa nostra” (reato per il quale Vaccarino venne assolto e Calcara rinviato a giudizio per calunnia aggravata) riuscì a farlo condannare per traffico di sostanze stupefacenti. Un traffico di morfina-base tra Milano Linate e Alcamo che Calcara patteggiò al Tribunale di Marsala. Orbene, dicevamo che sarebbe stato sufficiente leggere le carte… anche un cieco, se gli avessero letto la sentenza di patteggiamento di Calcara, emessa nel ’93, si sarebbe accorto che Calcara i fatti relativi al traffico di morfina base li aveva attribuiti a Lucchese Michele, Carollo Gaetano, Errante Parrino Paolo e Ciulla Salvatore, lasciando del tutto estraneo Antonio Vaccarino. Un aspetto che non passò inosservato nel corso del processo per l’omicidio del giornalista Rostagno, tant’è che in sentenza, a proposito del presunto traffico di droga, viene riportato come Calcara “dimentico, forse, di queste propalazioni sul conto del Lucchese, nel prosieguo della sua deposizione il Calcara ha attribuito esattamente le stesse cose ad un altro personaggio da lui chiamato in causa, Tonino Vaccarino”.
Potevano i giudici che per tanti anni hanno valutato positivamente le dichiarazioni del pentito, non rendersi conto che già nel ’93 il pentito aveva indicato quali complici soggetti diversi dal Vaccarino? Bisognava aspettare la sentenza Rostagno, del maggio 2014, per scoprire che Calcara accusava per gli stessi fatti persone diverse? Dando per scontata la buona fede dei tanti magistrati che hanno esaminato e giudicato secondo le dichiarazioni di questo pentito, non si può che provare un brivido di paura al pensiero che sia sufficiente l’accusa, assai contraddittoria, di soggetti di simil fatta per rovinare la vita di tante famiglie. Scarantino docet!
Nel corso della prossima udienza al processo contro Matteo Messina Denaro, a Caltanissetta, dovrebbe deporre il pentito Carlo Zichittella, ex uomo d’onore avversario dei corleonesi, che a seguito del summit tenutosi nel dicembre del ’91, quando Riina diede l’ordine di eliminare i reggenti della famiglia di Marsala, si rivolse agli “stiddari” di Agrigento Giuseppe Grassonelli e Orazio Paolello, progettando omicidi eccellenti.
Cosa potrà dire Zichittella in merito alle stragi e alle riunioni del ’91, visto che lui apparteneva alla fazione opposta a quella di coloro i quali organizzarono gli attentati di Capaci e di via D’Amelio? Non resta che aspettare per saperlo…
Calcara chiede ancora, inutilmente, di essere sentito. Perché non sentire cosa ha da dire e come giustificherebbe l’aver taciuto il nome di Matteo Messina Denaro? Perché non metterlo a confronto con alcuni pentiti che, nel corso di conversazioni telefoniche, afferma di aver fatto lui? Perché non chiedergli chi gli diede la falsa informazione (anche questo fa parte di conversazioni telefoniche) che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante? Lui, l’uomo d’onore riservato, l’uomo di fiducia, dimostra ancora una volta di aver avuto bisogno di “informazioni” di altri per poter dire quale fosse il ruolo ricoperto dal suo capo.
E mentre non viene sentito il testimone degli incontri del ’91 a Castelvetrano, non vengono sentiti l’allora Vicequestore Messineo e neppure il Vaccarino, si porta avanti un processo a un fantasma, in un’aula deserta, senza la presenza delle parti civili né di pubblico. Nessuna domanda sugli incontri dell’anno precedente, nessuna domanda sui tanti perché che riguardano Calcara e quello che sembra essere il più colossale dei depistaggi, non quello post-stragi, bensì quello finalizzato al poterle compiere nella più assoluta tranquillità.
Gian J. Morici
Provenzano & Matteo Messina Denaro: Il “Piatto Sporco”
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