– Non si può vivere una vita intera in un posto dove è possibile vedere il sole sorgere e tramontare a mare, nello stesso mare, in quell’unico immenso mare che è, da quando sei nato, il tuo unico orizzonte. Tu sei lì, immobile. Tutto è immobile. E solo il sole si muove. –
Anna, i piedi scalzi e neri di terra a penzolare accanto ai miei, sul tetto bianco del dammuso, le nostre impronte di oggi confuse a quelle di ieri e di tanti giorni come questi, di albe di mattini prima, di pomeriggi tramonti sere notti poi, gli occhi all’azzurro intenso del cielo, ancora spezzato in due dalla scia lontana di un aereo.
– E mi piaceva di più prima questo tetto, prima che tuo padre lo rimettesse a posto, quando ci crescevano ancora i capperi, dove potevano, come potevano. –
– Segno che qualcosa si muove allora, oltre al sole. I capperi, e mio padre. –
E pure il vento, pensai, pensavo, penso. Che qui batte sempre forte, senza tregua quasi, a ricordarci che la terra, il mondo, quello degli altri, è lontano e lui, con il suo urlare, può rendercelo lontanissimo, scagliandoci contro il blu di questo mare che ci circonda. Come i lunghi capelli di Anna adesso, neri più della nostra terra, vivi di luce come l’ossidiana, che mi circondano mentre nel vento la abbraccio forte. Adesso è allora però, ed è già tanto tempo fa.
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– Non mi guardare, Vito, non mi guardare con questa gonna, sono orribile. Un uomo mi sembro, un uomo vestito da donna. –
Avrei dovuto capirlo allora forse, già da quelle parole, il giorno della prima comunione, che Anna non era fatta per quest’isola, per riconoscersi dentro queste pietre ferme sotto il vento e il sole, nel sapore della terra e del sale, nella tradizione. Che non era fatta per riconoscersi forse in niente, che era fatta per cercarsi. O avrei dovuto capirlo quando veniva qui nelle mattine d’estate. A volte la vedevo arrivare di corsa, trafelata, lungo il sentiero battuto, che era tardi, si arrabbiava se non mi trovava fuori. Altre volte veniva presto, mi buttava giù dal letto e facevamo colazione insieme, dividevamo quello che mi aveva lasciato mamma. Poi senza darmi il tempo di mettere via nulla mi trascinava fuori a prendere la scala e via sul tetto.
Passava l’aereo per la Sicilia, quello della mattina.
Anna lo aveva scoperto per caso, una notte che il vento si era alzato così forte che lei non aveva chiuso occhio per guardarlo, per respirarselo, fino al mattino, quando ormai stanco e fiacco aveva reso tutta la sua potenza al mare, che era lui a ruggire adesso, e allora aveva atteso ancora per vedere l’alba, con gli occhi fissi verso casa mia, che dalla sua era da qui che sorgeva il sole, non dal mare, e non così presto come da me. Così lo aveva visto, aveva visto l’aereo che mi passava sulla testa due volte al giorno da quando ero nato, che quasi le strappava le piante di capperi, quelle che le sarebbero piaciute, che avrebbe rimpianto, che crescevano dovunque.
Da allora non se ne perdeva uno, quando non c’era scuola, la mattina almeno, il pomeriggio non sempre si poteva, c’erano i miei che non volevano, che era pericoloso, la mamma soprattutto.
Io mi appiattivo a terra, mi ci aggrappavo, proprio come i capperi, o le ginestre, le gambe e le braccia strette al corpo, a fare massa, gli occhi semichiusi, il viso teso. Lei diventava enorme invece, enorme e leggerissima: le gambe lunghe e snelle aperte, le braccia tese come grandi ali. Quando l’aereo arrivava e sembrava che il tetto, la casa, la terra tutta si potesse alzare insieme a lui, e quel rumore ti prendeva dentro, ti spezzava i battiti del cuore, io mi giravo a guardarla, mi chiedevo quando l’avrei vista volare via, come un aquilone.
– Sali prima tu. –
Aveva detto quel giorno, quello della gonna, l’unico giorno, che lei saliva sempre prima.
– Sennò mi ci guardi sotto, a questa stupida gonna. –
Le avevo stretto la mano quel giorno mentre passava l’aereo. Le avevo stretto la mano quando avevo visto la gonna gonfiarsi e gonfiarsi e gonfiarsi e avevo avuto paura che quella volta per davvero quel maledetto aereo me l’avrebbe portata via. Anna non aveva detto niente, ma aveva gli occhi pieni di lacrime.
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Dopo quel giorno se ne era messe altre di gonne, sulle gambe lunghe. E io salivo prima, senza che lei lo chiedesse, e quelle gambe che crescevano, come le mie, gliele guardavo quando il vento dell’aereo gliel’alzava la gonna, senza tenerle la mano, per non farla piangere, tanto lo sapevo ormai che il vento non se la portava.
Le guardavo le gambe e gli occhi lucidi e le mani e la bocca e il seno, il seno che le cresceva, e non eravamo più bambini e la desideravo e poi la notte ero io che non dormivo, a chiedermi se lei, se mi desiderava.
Contavo i giorni dell’estate, delle estati, avrei voluto che anche il tempo si fermasse su quell’orizzonte, in una eterna estate, in un’ eterna mattina, con quell’aereo sopra noi a tenerci lì insieme, proprio mentre lei sognava che la portasse via.
L’anno della licenza mio padre prese un lavoro a terra, sull’isola dicevamo così, in Sicilia. Quando finì la scuola mamma decise di raggiungerlo, che era troppo tempo che erano lontani e io ero grande, potevo cavarmela da solo. Anna allora veniva tutti i giorni, la mattina per l’aereo, il pomeriggio pure e per il tramonto. Qualche volta restava finché il cielo diventava nero e si vedevano tutte le stelle.
Una pomeriggio che il vento era troppo forte neanche gli aerei partirono. Anna però venne lo stesso, per il tramonto, e per le stelle, che quando c’è vento forte sono più belle, disse. E quando il vento forte le gonfiò la gonna questa volta gliela strinsi la mano, per dirle, credo, io non ti lascio andare. E poi le mani gliele strinsi in vita prima, mentre l’abbracciavo, per la prima volta, e mi baciava, per la prima volta, e sulle cosce nude poi, sotto la gonna gonfia di vento, e non mi disse più di non guardare.
Quando mio padre tornò, mamma prima di lui, in inverno, Anna già si vedeva la pancia, non si poteva più nascondere.
Mio padre lavorò per noi allora, sistemò la casa, ci fece spazio, nel poco spazio che era stato il loro, che ci saremo stretti. Fu allora che rifece il tetto.
Ero felice. Avevo trovato un lavoro, avevo Anna, avevamo una casa, un posto nostro, avevamo il nostro tetto, e avremmo avuto un figlio. Anna non sarebbe più volata via.
Ce la portavo io sul tetto, ancora, anche quando la pancia era una fatica salirla su per la scala di legno, perché era lì che eravamo nati, sotto quel cielo, e io volevo che non lo dimenticasse, che era quello il posto dove lei era felice, e non era vero, non era vero quello che aveva detto quando i lavori finalmente erano finiti e lei era finalmente venuta a stare qui, la mattina dopo il matrimonio, fatto in fretta, tra di noi, tra pochi amici e le famiglie, neanche al completo, l’inverno dissero tanti, sopra al tetto, i piedi penzoloni fuori, non è vero che niente si muove, anche lui, nostro figlio, si muove. E l’avevo abbracciata. Forte.
Lei non aveva detto niente. Ma aveva gli occhi pieni di lacrime.
E’ stato tanto tempo fa.
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Aurora ha sedici anni oggi. Gli stessi anni che aveva sua madre quella notte di vento e di stelle. E ha i suoi occhi, neri e lucidi come i capelli, come la terra, le pietre, le case di quest’isola con un orizzonte solo, circolare, finito. Lei i suoi occhi non se li ricorda. Anna se ne è andata prima che lei potesse ricordarla. Per non ferirla, disse.
🙂