Prokof’ev – di Sara Milla

 E’ così. Non c’è niente da fare. Oltre la realtà. Che è fatta dei fastidi e dei ripari del corpo, del poco di benessere del momento. Se poi uno deve riassumere, è così. E’ così che ti amo, come questa musica qua, che non so di chi è, che passa ora la radio. Mi pare che c’è un violino, senti questo violino come accelera, e come all’inizio l’arco è dentro le membrane della testa, come ti solleva le vertebre del collo. Non posso dire altro, l’ho capito appena la musica ha fatto tanto di uscire da questa scatola.

Ma ti pare che si possa dire? Anche qui appena c’è una pausa arriva il colpo di tosse, il corpo non resiste, il corpo non può fermarsi. E mentre rifletto taglio il pane, se fossi lì tossirei di paura, perché il violino fa qualcosa di terribile, incredibile che quel pezzo di legno con quattro corde isteriche,  pronte a spezzartisi in faccia possa scatenare tanti pensieri in una testa vuota di sentimenti.  Non fa che pungere, e così sensazioni vaghe diventano simili alle pagine di un libro, al racconto di una storia. Ci vedo questo, ma non ho tempo. Ho preparato tutto sulla tavola e devo correre via. Non fosse questo pane, e questa spremuta di arance, e questa minestra nella pentola a dirla sul mio affetto, potrei farti sentire questa musica. Riassume tutto, ad un livello estremo però, ti toccherebbe e tu capiresti. Non sei un uomo stupido o insensibile. Tocca trovare il momento, e qui il momento non c’è mai.

Mi chiudo la porta alle spalle e vado verso il parcheggio. Le giornate sono più lunghe, di poco, ma si accumula la luce, si sente. E la strada è semideserta a quest’ora del mattino, un’ora in cui tutti dormono, com’è bello la sera molto tardi, quando gli altri non ci pensano a girare, sono nel loro letto, attratti da un sogno. Se sono in strada non voglio tornare a casa, e se sono in casa è durissimo uscirne. Non c’è un luogo. Tranne qualche minuto fa, quando la radio  trasmetteva. Allora, dopo tanti anni, e tante musiche ascoltate, cose alla buona, in qualche festa tra amici, all’inizio, poi con il tempo la musica non si ascolta più, nessuno vuole ballare, o iniziare una nuova relazione o complicarsi l’esistenza, ho capito che dalle tante coincidenze sonore ne può uscire una che un bel giorno parla a te sola. Se non smetto di pensarci e ricordo il motivo, questa sera te la canticchio, così mi dici cos’è, perché tu sai tutto di musica, ne sai più di quello che dovresti sapere di me. Accosto la macchina e vado al lavoro. Accendo la luce negli uffici, riordino, lavo i pavimenti, spolvero le scrivanie. Non credo che chi sta seduto qui se la passi molto meglio di me. Io cammino su questa moquette e nessuno mi vede, aspetto che il giorno si arrampichi sui vetri dei finestroni, e se li vedo sporchi li lavo. E’ semplice. E non devo pensare. Così ora posso rimestarmi in testa i passaggi della musica di oggi, e chissà chi era, uno importante sicuramente, perché con quella capacità deve per forza aver sfondato. E perché adesso sento che la testa è un posto più accettabile. Meno inospitale.

Quando arrivano le nove è come se arrivasse mezzogiorno. E ho fame. Il bar di questo edificio ora è aperto e vado a fare quattro chiacchiere con il barista, che è ancora cotto di sonno, e mi porge il caffè sbadigliando. Non so se sono in grado di capire l’architettura, e di esprimere un parere, ma chi ha pensato a questo bar doveva avere qualche problema con i momenti ricreativi. Bevo velocemente il mio caffè e sbocconcelllo la brioche giù per le scale. Ho finito, vado via, e intanto salgono i primi impiegati. Noi abbiamo le stesse facce, in qualche modo siamo delle stesso paese, anche se ci camuffiamo i colori, tanti capelli rossi arrabbiati, e biondi fantasiosi su visi mori. Qualche sorriso, qualche buongiorno. Ora devo attraversare la città. Piove e il tergicristalli batte il tempo, e la pioggia precipita a tamburo sul tetto della macchina, e al semaforo che non scatta c’è un tributo sonoro di clacson esasperati. Oggi non si cammina, ma neanche ieri, solo al mattino e alla notte, quando io esco e quando rientro, solo nelle ore del sonno, del tepore, del mistero universale. La sera. quando entro in casa, la casa dorme. Ma prima sono rimasta in macchina, in macchina ad aspettare che mi venisse voglia di scendere, di prendere le borse della spesa, di cercare le chiavi, aprire il portone, rinchiudermi nell’ascensore e trovarmi di fronte alla porta di casa. E risolvermi ad aprire. Rientrare, passare dall’esterno all’interno, in quel luogo che si vuole intimo. Pigio sull’acceleratore perché è tardi, e calcolo che se non troverò posteggio dovrò trattenermi di più dove sono diretta, e non ne ho nessuna voglia, perché oggi quel quarto d’ora mi serve. Infatti  giro per il quartiere alla ricerca di un posto. Ma sembra impossibile, allora mi fermo, aspetto. E tu mi passi davanti . Sei lì che cammini mentre non siamo insieme. Ti vedo mentre tiri su il cappuccio del giaccone, per ripararti dalla pioggia che ha aumentato di intensità. Ti vedo in un quartiere che non è il nostro. Dietro di me si libera un posto. Faccio retromarcia e mi infilo di volata. E scendo. Oggi non sarò ragionevole. Sei già vicino alle panchine dei giardinetti che dividono in due questa strada di ricchi, quando prima la mia famiglia ci abitava, quando erano giovani, poveri e io non ero nata. Ora ci vengo a fare le pulizie qui, in una casa che mi sembra di aver sempre conosciuto. Piove ma io quasi non lo sento, non avverto più suoni, solo la vena che mi batte nel collo. Non rifletto ti seguo. Guardi per attraversare e vai sul marciapiede opposto. Tu cammini senza velocità, senza meta, con un passo triste. Tu sei qui ma io non dovrei saperlo, ti so a casa, ancora a dormire. Che ne sarà del pranzo che ti ho preparato. Cammini con la testa infossata tra le spalle, per via della pioggia. Non ti fermi per ripararti. C’è un orologio di questi moderni, con le cifre luminose, sospeso sotto l’insegna della farmacia, che mi dice che è tardi, che è quasi un’ora che ti seguo. Che tu ti allontani verso la fermata degli autobus e che non posso proseguire. Vado verso il mio lavoro, e quando mi aprono la porta e mi guardano perplessi so già cosa devo dire, che c’è la pioggia, e che non si trova un posto neanche a pagarlo. Mi preparo, metto un grembiule e comincio le faccende. I figli sono a casa, mi dice lei, stanno ancora dormendo, quindi niente aspirapolvere. Non l’ascolto, sono immersa nel lavoro, e nell’immagine di te che vai verso la fermata, che sei solo, indisturbato. Uno straniero. 

La signora parla al telefono, forse ci lavora al telefono, non so. La loro casa grande, antica, con tanti arredi, e tante cene da sgombrare la mattina dopo, come oggi. E tanti soldi. Ma lei ed io siamo piuttosto sole, pare. Anche silenziose. Più che parlare al telefono, lei ascolta. Le vedo le spalle, contratte, magre, infantili. Nei muri spessi non penetra il traffico della strada, forse un brusio per non sentirsi troppo isolati, fasciati dal casamento antico, massiccio, una volta forse popolare ed ora costosissimo. I figli dormono, il marito non c’è, al telefono qualcuno dice qualcosa di spiacevole. Vicino alla finestra c’è il pianoforte a mezzacoda, e adagiato sopra, il violino. Non li tocco, mi hanno detto di non toccarli neanche se hanno su tre dita di polvere. Mi accorgo, guardando gli strumenti, che ho tutto il passaggio di quella musica in testa, intatto, come se avessi la radio ancora accesa. Durerà, o svanirà alla sera, quando vorrei ritrovarlo per riprovare alcune cose che pensavo non sarebbero tornate più con tanta evidenza? Possono i sentimenti, e i ricordi, venire così connotati da un profumo, da un sapore, dall’unione di alcuni suoni?

Ecco, si è svegliata la ragazza. Arriva dal corridoio sbadigliando, cerca sua madre. La guarda e le sorride. Lei smette subito di telefonare e le dice che è pronta la colazione. Mi saluta, e poi si va a sedere al tavolo di quercia, quello grande, lungo che divide la zona cucina dal salone vero e proprio, questo grande ambiente dove  mi smarrisco ancora, abituata come sono a piccole stanze, e ad uffici delimitati da pareti di plastica. Continuo a fare il mio lavoro, ma decido che voglio qualcosa dalla ragazza. Sono anni che vengo qui, e non chiedo mai niente e non parlo certo dei fatti miei, e dei loro capisco solo quello che si dicono quando decidono che è come se non ci fossi. Ma lei l’ho sentita suonare col maestro. E il maestro le diceva che era molto migliorata. E avevo deciso di stirare, per non fare rumore in quel momento,perché se io avessi avuto un violino sarei voluta essere come lei: piccola, flessuosa, con i capelli ben pettinati che scendono sui lombi, un vestito demodé carta da zucchero, come i suoi occhi. Aspetterò il momento giusto. Mi accorgo di fare le pulizie esattamente intorno al pianoforte, così vicino, mi trovo un tappeto da smacchiare. Le sento parlottare, e la voce della donna è ansiosa, sta per accendersi una sigaretta ma ci ripensa. Ora si sveglia anche il ragazzo. Somiglia al padre in tutto. I risvegli in casa mia non sanno certo di folla, non di festa, ormai da tanto. E’ che da troppo non ci risvegliamo insieme, e alla domenica questo ci turba, come se dovessimo di colpo fare a meno di quell’intimità con noi stessi a cui non vogliamo più rinunciare, non dover dar conto del viso segnato, dei capelli in disordine, del tempo che passa.

Alzo gli occhi e la ragazza è uscita di scena, va a vestirsi. Il ragazzo mi saluta, poi scompare in camera sua. C’è tempo, posso aspettare..

-Ha finito qui? Perché tra mezz’ora arriva il maestro, Gloria ha lezione di violino.-

Ho finito, passerò alla cucina, rimarrò nei paraggi, e quando il maestro sarà andato via, lo chiederò alla ragazza, l’importante è che non dimentichi la sequenza, che mi resti attaccata precisa come ora.

Impilo le stoviglie, sgrasso il piano cottura, detergo, strofino, lucido, igienizzo, spolvero, rimuovo a fondo, rifletto, tenendo da parte quel piccolo nucleo di musica. Arriva il maestro e il violino si lamenta. Non è giornata oggi. Passo nelle altre stanze. In camera da letto sorprendo la signora al telefono, che si asciuga gli occhi col dorso della mano. Non so che succede, ma non ho voglia di vedere altro dolore. Oltre il mio. Non è vero che mi aiuterebbe, e non voglio aiutarmi così. Lei conclude la telefonata, mi viene dietro.

-C’è da pulire bene il vano doccia, nell’intercapedine ci ho visto la muffa-

Mi infilo nel vano doccia e spruzzo il disinfettante, poi mi appoggio alla parete. Aspetto che la crema faccia il suo effetto sulle aste di acciaio, aspetto che mi passi questa spiacevole sensazione di essere un parafulmine, in genere nella vita. Strofino con foga, sciacquo, riordino. Mi sembra tutto pulito e accettabile, mi sforzo persino di ripulire quel grumo di polvere nera dal fondo dei pensieri, quella nuvola persistente che non si scarica mai. Ancora piove invece là fuori. Comincio ad essere stanca. Mi arrivano gli esercizi di violino, per quanto ripetitivi, per quanto ossessivi, mi rendo conto che solo il suono è già un avvenimento. L’esperienza del suono, che non è una voce umana, né naturale, che so, il tuono, la pioggia, il torrente, il vento, il cuore. E’ la voce di un incontro, penso, le dita e i tasti, l’archetto e le corde, la cassa armonica, il movimento dell’aria sfruttato affinché si possa incessantemente parlare, mandare un richiamo, esternare fluidamente una idea. Ecco, tutto quel masso di immagini e sentimenti e emozioni e ragionamenti, questa mattina era divenuto fluido e la musica lo diceva. Devo assolutamente sapere cos’era. Io andrò lì e lo canterò, lo ridirò e risapranno dire cos’era.

Pulisco intorno al ragazzo immobile davanti al computer, lo circumnavigo, in fondo la sua stanza è in ordine, non gli serve molto tranne il computer e la sedia girevole.

Lo studio del marito è in uno stato pietoso. Non credo ai miei occhi. E lei è in fondo alla stanza, di fronte alla finestra che emana una luce grigia sul suo viso lattiginoso di bionda.

-Non pulisca qui, qui deve rimanere tutto com’è.-

Allora esco dalla stanza e vado a preparare il pranzo. C’è un foglio tenuto fermo da uno dei magnetini sulla parete del frigo. Sono le disposizioni per il pranzo, più che altro uno spuntino.

Il maestro sta andando via, la signora arriva per salutarlo. il ragazzo è emerso dalla sua stanza. Gloria rimane vicino alla finestra ad accordare lo strumento. Il temporale è sempre più violento, e io ti penso sotto la pioggia, immagino che tu non ti stia riparando, che il tuo giaccone sia ormai zuppo, e le scarpe bagnate. Ti immagino solo e penso che sono qui a preparare un pranzo senza amore. Vorrei tenerti nella nostra casa, al riparo, vorrei saperti lì, mentre io corro per la città, e sistemo gli oggetti intorno alla vita degli altri. Perché tu non lo sai quanto è profondo il mio senso di te. Per questo ora giro intorno al bancone divisorio e mi avvicino a Gloria. Le dico: – Se io ti canticchio un motivo, tu mi puoi dire chi è il compositore?-  Lei mi sorvola con lo sguardo, è così celeste il suo sguardo, e richiama il maestro:- Maestro, un momento, ci aiuti-  Mi guardo intorno, sto cercando riparo. Tutti mi guardano.

-La signora vorrebbe farci sentire un motivo e noi dobbiamo indovinare chi è il compositore- dice allegramente. E’così fuori luogo quell’allegria nella luce quasi nera che entra dalle finestre. Il Maestro sorride: -Sentiamo, ma non sono sicuro di..-

E canto, cerco di attaccare alla gola la spina che ho in testa, ma non ne esce che un uggiolio spietato. La mente compita nota per nota, la gola non è pronta. Mi guardano sorpresi. Riprovo, mi sembra impossibile che non si possa comandare alla mia gola quello che la testa sa perfettamente.

Gentilmente il Maestro mi chiede: -Sa almeno se è un concerto, una musica per pianoforte.-

-Violino- dico io – Violino e una orchestra- E guardo verso il parcheggio sotto la pioggia, il vento, gli alberi incupiti che si sfrondano nella bufera, la gente che corre incappucciata. I lumi nelle finestre di fronte. Sembra notte. E sul marciapiede di fronte, ti vedo. Sotto una tettoia, che mi aspetti. Riprovo testardamente a farmi uscire quella musica e a staccarla dalla testa. C’è silenzio nella stanza. Modulo bene, mi sento quasi vibrare come se fossi il violino della radio. Gli occhi mi si inumidiscono mentre ti guardo con avidità e tu guardi verso la finestra. Canto, sto cantando, sommessamente, perché che ti amo non te l’ho mai detto, perché solo oggi so quant’è più complesso della parola. E qualcuno l’ha messo in musica. Ma chi?

-E’ Prokofiev- sussurra Gloria e sorride.

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