Ottantaquattro anni. Quando se né è andata da questo mondo di Anna c’è stato ben poco da mettere via. Eppure ottantaquattro anni son tanti.
Mia madre mise via un borsellino di pelle lisa, macchiata dal tempo, che non avrebbe usato, mai. Un ricordo, disse. Aveva con sé due grandi buste quando la chiamarono dalla casa di riposo fuori città, che la zia, a memoria di tutti, non aveva mai avuto neanche una valigia. Una delle due fece meno di trenta metri. Dalla stanza al piano terra di un vecchio e grigio palazzotto a tre piani che un tempo doveva aver avuto un qualche decoro, consideratane la posizione predominante nella piazza centrale del cuore del paese, al cassonetto dei rifiuti appena fuori il portone. Cose troppo vecchie anche per le elemosine della parrocchia. Mentre portava alla macchina la seconda busta un gruppetto di ospiti si fece coraggio e le si avvicinò per chiederle se potevano vedere se c’era qualcosa che potesse essere utile. Quando ognuno ebbe preso per sé, che nella busta restava ben poco, un anziano signore, che si era tenuto fino ad allora in disparte, vestito di nero, di quello che per lui era il vestito buono da tirar fuori per le visite e per gli addii, prese deciso le mani di mamma mentre lei richiudeva la busta. “Anna mi rammendava i calzini. Io non ne sono capace. Una volta mi ha anche smacchiato un maglione, che era macchiato da un anno. A Natale ve la siete portata da voi, in città. E questo posto è diventato più grigio del cielo del mese dei morti. Quando è tornata abbiamo fatto finta che era Natale di nuovo, qui, tra di noi. E abbiamo anche ballato. Lo sapeva lei, che Anna non aveva mai ballato con un uomo?” Aveva gli occhi cerulei, sbiaditi dal tempo e dalla stanchezza ma vividi insieme di memoria e dolore. “Noi vecchi non piangiamo lo sa? Con l’età la morte diventa l’amante con la quale dormiamo. Se ci capita di piangere piangiamo per i giovani. I giovani non dovrebbero mai morire. E Anna era giovane, ed era bella.” Le mani ancora spesse e robuste con le quali le aveva stretto le sue tremavano adesso. E nel conseguente allentarsi della stretta le pieghe disegnate dalla vita, dal lavoro, inasprite e inaridite dagli anni, le graffiarono la pelle liscia e giovane ancora. Mamma riaprì la busta. Si ricordava di quell’uomo. La zia le aveva raccontato qualcosa dopo pochi giorni che l’aveva trasferita lì, che l’altra casa costava troppo e a lei non piaceva neanche. Non le piaceva che li tenevano separati, uomini e donne. Si vedevano da lontano ma non si incontravano mai. E poi erano tutti vecchi diceva. E mamma, no, non solo mamma, tutti noi, i pronipoti e i nipoti insieme, ridevamo di gusto. Quando l’aveva portata lì invece, dopo un primo momento di panico, di smarrimento nel comprendere che si stava allontanando, per la prima volta, dalla città in cui era nata, di paura all’idea che a trovarsi lontana sarebbero state ancora di meno le occasioni per incontrarci e più grande la sua solitudine, era tornata a sorridere. “Qui ci fanno mangiare tutti insieme, e anche giocare a carte e vedere la televisione. E ci stanno i vecchi giovani.” L’avevamo presa in giro, che magari finalmente trovava marito. E tornando alla casa dopo una domenica con noi aveva confidato a mia madre che era vero, che c’era un vecchio giovane che lei gli cuciva i calzini che se la voleva sposare. “Ma io che ci devo fare, oramai sono vecchia pure io!” aveva aggiunto, con i grandi occhi neri lucidi sulla faccia pulita. Con i grandi occhi neri lucidi delle lacrime che non le avevano mai lasciato spendere.
Anna era la seconda di sedici figli. Sedici in un tempo in cui guerra, fame e malattie che oggi si curano con l’aspirina se ne portarono via la metà. Ma ne rimasero abbastanza da chiederle di essere mamma prima che sorella, abbastanza a lungo da diventar donna senza mai essere bambina, né ragazza, né adolescente. Così i fratelli andavano a scuola, poi iniziavano a lavorare, poi si fidanzavano e poi si sposavano. Le sorelle crescevano, poi andavano ai balli, le più piccole persino a scuola, poi incontravano qualcuno, si innamoravano e si sposavano. E lei, lei Anna, che era la più grande, che era già grande a sei anni, badava a loro, e per loro cuciva, lavava, stirava, cucinava, accudiva alla casa che per tante persone una mamma non poteva bastare. E gli anni passavano.
Non era bella Anna. Che non le era toccato di esser bella come Lucia, di esser alta e forte come Maria, di essere intelligente e studiosa come Teresa. Lei la scuola non l’aveva neanche iniziata. Le dicevano che era giusto, no che era giusta così, per la casa, per la mamma, il babbo, i fratelli. Le dicevano e se lo diceva. Che era giusto così, andava bene così. Ed era giusto per tutti. Fu giusto per tutti anche quando conobbe quel Mario. Che la vide una volta per strada perché un vento maldestro le aveva strappato di mano un lenzuolo. Per strada col vestito di casa, con la pelle sudata, la faccia da sempre e per sempre pulita, i capelli raccolti. Gli occhi grandi pieni di vita prigionieri del silenzio dei sogni. Che non sogna chi non vede nulla. Chi non è giusto per vedere nulla. Mario le vide la vita negli occhi e voleva prendersela e portarla via. Ci provò anche Anna. A far cadere ogni tanto un lenzuolo. Le venne anche un sogno una volta. Perché quelle labbra, quella pelle, quegli occhi, quella voce. Ma anche Mario era già un uomo fatto. E in un tempo in cui le scelte andavano fatte per tempo. Se ne andò Mario e con lui quel sogno di Anna. Che ogni tanto tornava. Per poco però. Che c’erano i sogni degli altri da realizzare.
Quando tutti i fratelli lasciarono casa ci furono i genitori da accudire. E ci furono i figli dei fratelli. E quando non ci furono più i genitori ad Anna servì una casa ed un lavoro, che i tempi erano cambiati e tutti quei fratelli non avevano posto per lei che non si dormiva più tutti in una stanza. E Anna andò ad accudire altre donne come sua madre, con figli dei tempi cambiati che non avevano posto per loro. Che in cambio avevano posto per lei, nel posto che i figli avevano lasciato. Nel frattempo i figli dei fratelli crescevano e si sposavano e anche per loro Anna talvolta cuciva o cucinava o accudiva alla casa. Che le mogli adesso lavoravano tutte e lei aveva pure ogni tanto del tempo libero da dedicare ai loro sogni. Soprattutto poi ai sogni dei figli dei suoi nipoti. Per i quali tornava a raccontare per la terza volta le fiabe che a lei non aveva raccontato nessuno.
Io le ho sentite quelle fiabe. Le stesse che ha sentito mia madre. E quelle che ha sentito mia nonna. Non credo di averne mai sentita una intera. La zia si addormentava sempre prima di noi, mentre noi ridevamo delle sue favole strane. Non so neanche se avevano un finale. E non ci sono in nessun libro. No non poteva averle inventate. Per inventare una fiaba devi aver visto i colori, il mare, il vento, la pioggia. Il vento. Una fiaba parlava del vento. Zia Anna di sicuro non aveva avuto più di un sogno. Lo sapevamo anche noi di Mario, del suo sogno. Ma i sogni degli altri li aveva visti tutti. E aveva visto i colori degli altri e sentito il racconto del mare. E la pioggia e il vento si, quelli c’erano sempre anche nel suo unico sogno. Quello che le faceva brillare i grandi occhi neri delle lacrime che non aveva pianto.
Mamma prese dalla busta la cassetta del cucito che aveva regalato a zia Anna a Natale e si andò a sedere su una vecchia panca di legno nel lungo corridoio di servizio alle stanze. Giovanni la seguì in silenzio, in silenzio le sedette accanto. Dalla cassetta tirò fuori un vecchio fodero con gli occhiali da vista, un grosso ago da lana, l’infila aghi, il ditale e una matassa di fili colorati intrecciati. Tirò fuori un lungo calzino scuro da uomo. “E’ il mio calzino questo!” “Lo so” disse mamma “ora ti insegno come si fa”.
la tenerezza. e lo spreco. magari la vita ti trova, ma non è detto che ti lasci qualcosa.