In un ampio servizio sul numero di martedì 3 luglio sul quotidiano “Il Tempo” di Roma vengono posti con chiarezza interrogativi imbarazzanti a Nino di Matteo sul suo ruolo nel gravissimo episodio di giustizia ingiusta consumato a Caltanissetta nel processo per l’assassinio di Borsellino, in cui, sulla base delle incerte e poi ritrattate e quindi reiterate dichiarazioni di un singolarissimo “pentito”, tale Scarantino, si volle comunque arrivare a distribuire parecchi ergastoli alle persone da lui accusate, che poi, con un giudizio di revisione dei giudicati, furono tutti assolti e pienamente.
Fu, è noto e lo ricorda quel servizio (che riapre una questione non casualmente quasi dimenticata) forse il più grande e clamoroso depistaggio della storia giudiziaria. Un depistaggio stranamente mai approfondito, benché non certo “casuale” e sicuramente organizzato da qualche mente sopraffina.
Di Matteo si prodigò per difendere la “verità” dello sciagurato Scarantino e per coprirne e giustificarne le evidenti crepe e persino per sostenere che le ritrattazioni erano la prova che, prima aveva detto la verità, perché era per timore della vendetta dei sodali delle persone dal lui accusate che faceva quelle ritrattazioni.
Il più grande depistaggio.
Ma ad esso ha fatto seguito un altro clamoroso, insolente depistaggio: il depistaggio dalle verità sul grande depistaggio.
La macchinosa, artificiosa costruzione dell’eroe Di Matteo, icona della lotta alla mafia, quello “condannato a morte da Totò Riina” (, nelle ultime versioni da Messina Denaro), il magistrato più “intoccabile” proprio perché “condannato a morte”, passato ad occuparsi del c.d. processo della “Trattativa Stato-Mafia”, di persecuzione, stavolta, di Servitori dello Stato, il grottesco “Cittadino di Cento Città”, onorato su iniziativa di Consiglieri Cinquestelle col tacito e timoroso consenso di tutti gli altri, ministro in pectore, titolare e applicato a Roma e, contemporaneamente a Palermo, quello a cui il C.S.M., il Ministero, il Procuratore di Palermo non potevano dire no “perché era stato condannato a morte dalla mafia”, quello che le scolaresche di regioni lontane erano portate in pellegrinaggio ad ossequiare, tutte quella grottesca pantomima era ed è il più grande depistaggio della verità sul grande depistaggio.
Questi i metodi, questa la mancanza del senso del ridicolo del “Partito dei Magistrati” e dei suoi adoratori e parassiti.
Depistaggio del depistaggio.
E, poi sulla nebulosità della verità che è il prodotto di certe colossali mistificazioni, si creano i miti, i misteri, le dietrologie. E gli affari.
Mauro Mellini