Condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio nelle quali persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e gli uomini delle rispettive scorte.
La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, ha accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Gabriele Paci, riconoscendo il ruolo che ebbe il latitante il quale partecipò agli incontri nel corso dei quali vennero determinate le stragi, dandone il pieno e consapevole consenso, avallando dunque la strategia stragista di Totò Riina.
A distanza di quasi trent’anni dalle stragi, la sentenza emessa ieri permette di fare chiarezza su molti punti oscuri di quel periodo. L’attività della procura nissena, rappresentata in giudizio dal Pm Paci, grazie a nuove testimonianze ed elementi emersi nel corso dei processi, ha ricostruito il periodo antecedente le stragi, i ruoli degli esponenti mafiosi e in particolare quello dell’allora boss rampante Matteo Messina Denaro che aveva già preso il posto del padre Francesco sostituendolo nelle riunioni con i vertici di “cosa nostra” e avallandone la follia criminale, così come l’ha definita il pm Gabriele Paci.
Dal processo emerge l’importanza delle riunioni tenutesi a Enna e Castelvetrano, nel corso delle quali venne pianificata la strategia stragista di Riina alla quale Matteo Messina Denaro diede il proprio assenso, rafforzandone il ruolo all’intero di Cosa Nostra.
“La decisione di uccidere i due giudici – ha affermato Paci nel corso della sua requisitoria – non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza”
Un lavoro immane quello condotto dalla procura nissena che a distanza di trent’anni ha dovuto ricostruire il periodo in cui l’attuale boss latitante si sostituì. Un’istruttoria lunga e difficile nel corso della quale, a distanza di oltre venti anni, sono stati sentiti testi ai quali nessuno in precedenza aveva posto le stesse domande.
Quella di ieri è una pietra miliare nella ricostruzione della storia della mafia stragista di Totò Riina, nell’eliminazione di vertici dissidenti della consorteria mafiosa e della genesi stessa delle stragi. Una genesi che riporta all’indagine mafia-appalti, voluta da Falcone e successivamente da Borsellino, come movente degli attentati.
Nel corso della sua requisitoria Paci ha anche ricostruito il ruolo dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che avrebbe “inquinato l’acqua nei pozzi”, portando le indagini su piste diverse da quella di Matteo Messina Denaro del quale non fece mai il nome. Calcara, un pentito “eterodiretto” – usando le parole del pm – fino a poco giorni prima che venisse emessa la condanna del latitante, avrebbe voluto essere sentito nel corso del processo ribadendo la tesi che all’epoca a capo di “cosa nostra” del trapanese si trovava Mariano Agate e non Francesco Messina Denaro e che in ogni caso non vi era suo figlio Matteo. Una teoria smentita dalle nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia e dagli elementi emersi nel corso del processo.
Le accuse mosse dalla procura nissena hanno dunque trovato conforto nella sentenza emessa ieri sera, con la condanna della primula rossa castelvetranese, aprendo a nuovi scenari e ipotesi investigative.
“Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”
Legale Borsellino, ora mandanti esterni:
(AGI) – Palermo, 21 ott. – “Nel corso della requisitoria, nella definizione dello scenario, vari elementi convergono in una cointeressenza di vari ambienti per la destabilizzazione del Paese – continua l’avvocato Trizzino parlando con l’AGI – e da operatori del diritto dovremmo cercare le prove di coinvolgimenti esterni”. Oltre alle nuove prove – tra cui le intercettazioni in carcere di Totò Riina e le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina – il processo si è basato su una rilettura di alcuni episodi, incrociando elementi emersi nelle sentenze passate in giudicato.
“Questo processo dimostra che la valorizzazione di elementi già agli atti può portare alla ricostruzione di quei fatti da sottoporre al giudizio di un giudice, io credo che ci siano disseminati qua e là – anche a dimostrazione dei vari processi svolti in 28 anni – elementi il cui approfondimento può portare alla rivalutazione di alcuni episodi che sono stati sottovalutati”.
Durante la requisitoria il pm Paci ha scandagliato i giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio, riconoscendo una ‘accelerazione’ nelle fasi di organizzazione dell’omicidio. “L’accelerazione c’è stata e ce lo dice chiaramente Giovanni Brusca. C’è qualcosa di straordinariamente importante tra l’incarico di uccidere Mannino, a Brusca dato i primi giorni di giugno e ritirato da Riina il 20 di quel mese: in quel periodo va cercata la ragione reale dell’accelerazione”, aggiunge l’avvocato dei familiari del giudice ucciso il 19 luglio 1992. “Secondo la nostra analisi, abbiamo individuato un particolare interesse del giudice Borsellino nei confronti dell’intreccio mafia e appalti – conclude Trizzino – e l’ipotesi che questa abbia determinato la sua morte”.
“Questa sentenza aggiunge un ulteriore tassello, restano da ricostruire le convergenze d’interessi che causarono la stagione stragista del 1992”. Lo dice all’AGI l’avvocato Fabio Trizzino che, assieme al collega Vincenzo Greco, ha rappresentato i familiari del giudice Paolo Borsellino nel processo in cui la corte d’Assise di Caltanissetta ieri, poco prima id mezzanotte, ha condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro con l’accusa di essere tra i mandanti anche delle stragi di Capaci e via d’Amelio del ’92.
“Messina Denaro era l’ultimo dei grandi soggetti di Cosa nostra che finora era sfuggito alle sue responsabilità – dice il legale all’indomani della sentenza, nel rappresentare il pensiero della famiglia – sicuramente in quel momento storico vi sono state delle situazioni in qualche modo di convergenza rispetto a questa strategia politica di Cosa nostra: adesso bisogna ricercare gli eventuali mandanti esterni”.
Nel corso del processo la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ma anche investigatori dell’epoca, nel tentativo di ricostruire il contesto criminale e politico di quegli anni. (AGI)
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