“Tutte le vittime del dovere e innocenti della mafia, costituiscono una linea rossa di sangue che non ha trovato e non trova paragoni in nessuno Stato europeo o dovunque nel mondo occidentale”
Inizia con le parole di Antonio Scaglione, figlio del giudice Pietro, assassinato dalla mafia nel 1971, il servizio di ‘Inviato Speciale’ di Radio1 Rai in ricordo della Strage di Capaci del 23 maggio del 1992.
“Una lunga scia di sangue che macchia il paese e la sua storia – racconta la giornalista Rita Pedditzi – 14 magistrati uccisi per mano di ‘Cosa nostra’ in quasi mezzo secolo. 5 maggio 1971, muore il Giudice Pietro Scaglione. Antonio, il figlio, allora aveva 21 anni”
“Il primo cosiddetto delitto eccellente della storia della mafia – dichiara Antonio Scaglione al microfono dell’inviato di Radio1 Rai – diede inizio al martirologio nella magistratura siciliana e alla strategia terroristico mafiosa dell’attacco ai rappresentanti delle istituzioni”
“Un delitto che era un messaggio a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che anni dopo affermarono che con l’omicidio del Procuratore Scaglione si doveva dimostrare a tutti che ‘Cosa nostra’ non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino. Lo stesso cammino che Falcone e Borsellino tentarono di ostacolare ma rimasero vittime della stessa mano 21 anni dopo. È l’estate del 1985, dopo gli omicidi in rapida successione del Commissario Beppe Montana e del vice Questore Ninni Cassarà, i giudici del Pool Antimafia si trovarono in una condizione di grave pericolo. Falcone Borsellino vennero trasferiti d’urgenza con le loro famiglie al carcere dell’Asinara per completare l’istruttoria del maxiprocesso. L’ordinanza che porta alla sbarra gli uomini di ‘Cosa nostra’ venne depositata l’otto novembre 1985. 35 anni fa. Vincenzo Mineo è l’ex direttore dell’aula bunker di Palermo”
Quasi a fare da colonna sonora alle interviste, le drammatiche comunicazioni via radio delle autopattuglie accorse sul luogo della strage.
“Ricordo una cosa terribile per me, che a un certo punto non so come mi trovai in questa stanza dove avevano appena portato il dottore Falcone dopo che era deceduto. Ci trovammo soli in penombra con Paolo Borsellino. Sono quei momenti in cui capisci da che parte stai e capisci che non puoi stare da nessun’altra parte. Subito dopo, il 23 maggio, c’è la camera ardente al Palazzo di Giustizia, nella quale ci troviamo tutti e nella quale già, faccio una piccola annotazione amara, cominciavano ad arrivare gli amici del dopo. Quelli che magari in vita avevano sempre avuto nei suoi confronti un atteggiamento non esattamente amichevole e che poi sono diventati amici e sostenitori”
“Il maxiprocesso segnò la storia del nostro paese ma anche la vita dei due magistrati, amici da sempre innamorati della Sicilia, figli di uno Stato per il quale avevano giurato, servitori della legalità che non era solo una parola ma azione e rispetto delle leggi”
“Quando si parla di Inferno lo immedesimo come quell’inferno che io ho visto quel giorno. Quella non più presenza di un asfalto, pezzi di pietra e macchine accartocciate, macchine rovesciate…”
“Improvvisamente l’inferno è questa immagine cristallizzata nella mente di Angelo Corbo – prosegue la giornalista – uno dei sopravvissuti alla strage del 23 maggio del 1992, scorta del giudice Falcone. Nel tardo pomeriggio di quel sabato un’esplosione squarcia l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, nei pressi dell’uscita per Capaci. Muoiono il magistrato simbolo della lotta alla mafia, la moglie Francesca Morvillo, giudice anche a lei, e tre agenti di scorta. Sapeva Falcone che la mafia voleva ucciderlo ma capiva che a quell’obiettivo concorreva una convergenza di interessi di cui fu consapevole dopo l’attentato dell’Addaura di qualche anno prima, quando accennò alla paternità di quel delitto a menti raffinatissime… e quelle di Riina e Provenzano non lo erano. Il 20 giugno 1989 il Giudice Falcone si trovava in vacanza sulla costa dell’Addaura. C’erano anche due magistrati svizzeri che in quei mesi stavano indagando sul traffico di denaro dalla Sicilia alla Svizzera. L’ex procuratore Elvetico Carla Del Ponte…”
“Che ci fosse una connessione mafia elementi dello Stato, questo sembrava che Giovanni Falcone l’avesse considerato qualcosa di certo. Lui sapeva che continuando in questa attività di magistrato contro il crimine organizzato e contro la mafia un giorno o un altro… ne era consapevole”
“Secondo lei c’è un rallentamento nella lotta alla mafia?”
“Diciamo che è cambiata un po’ la situazione, nel senso che se ne parla meno. Anche sulla stampa se ne parla meno… quello sicuramente. Adesso, però, se effettivamente o no questo non sono in grado di dirlo. Ai ricordi che ho del grande lavoro che abbiamo fatto, perché lui a Palermo (riferendosi a Falcone – ndr) io a Lugano che bloccavo i conti bancari… Quindi il binomio era perfetto ed effettivamente eravamo riusciti mica male. Solo che ogni giorno mi domando, ma è cambiato qualcosa? Non mi sembra… purtroppo, non mi sembra…”
Durante le pause, le frasi agghiaccianti delle comunicazioni dalle autoradio sul posto e le centrali operative. La richiesta immediata di mezzi di elisoccorso, le voci rotte dall’emozione di chi dà notizie di morti e feriti. È l’inferno, quell’inferno in mezzo al quale hai la sensazione di trovarti ascoltando le interviste e le comunicazioni via radio.
“La sete di vendetta della mafia, si rimanifestò 57 giorni dopo, il 19 luglio, con la strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta. Ottavio Sferlazza, Procuratore della Repubblica a Palmi, allievo del Giudice Borsellino e pm nel delitto del Giudice Livatino, assassinato dalla mafia nel 1990. Un magistrato che aveva rifiutato la scorta…”
“Falcone sicuramente è una figura emblematica, non solo per quello che ha rappresentato o per l’attività professionale che ha svolto e per il modo come l’ha svolta… ma perché è stato odiato, avversato, criticato in vita anche dei suoi stessi colleghi e osannato da morto. Basti pensare che accumulò una serie di sconfitte per il posto di Consigliere Istruttore, dopo l’omicidio di Chinnici, per il Consiglio Superiore della Magistratura, per la nomina come Alto Commissario… e sarebbe stato sconfitto probabilmente anche per la corsa alla Procura Nazionale Antimafia che era una struttura, un’istituzione che lui aveva pensato. Mentre di Paolo, quello che ricordo e non potrò mai dimenticare, oltre Il suo tratto umano, la sua ironia, il suo impegno, la sua pulizia morale, è il fatto di avere creduto nei giovani. Ma c’è un elemento che secondo me accomuna queste due straordinarie figure, il fatto che sono morti perché erano soli… per esempio per Borsellino rimarrà sempre imperdonabile la negligenza di non avere previsto un divieto di sosta sotto l’abitazione della mamma che andava a visitare ogni domenica…”
Parole dure, che dovrebbero pesare come macigni sulle coscienze. Ieri, fortunatamente, le disposizioni adottate per l’emergenza da coronavirus hanno impedito le solite passerelle di antimafiosi di professione, di amici postumi dei due giudici, di quanti, forse, dovrebbero sentire il peso di una responsabilità quantomeno morale. Ancora una volta, a far da eco alle risposte al microfono di Rita Pedditzi, la voce gracchiante delle autoradio, la sensazione di dolore, di angoscia, e forse di paura, di chi si trovò dinanzi ad auto accartocciate, ai colleghi uccisi, a uno scenario di guerra in una città italiana.
“Con lo storico di Palermo, Giuseppe Carlo Marino – continua l’inviata di Radio 1 Rai – cerchiamo di capire le ragioni che hanno determinato le due stragi del 1992, consumate da ‘Cosa nostra’ con il massimo impiego di tecniche terroristiche in soli due mesi, come se alla strage di Capaci dovesse necessariamente seguire quella di via D’Amelio”
“L’eliminazione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, rispondeva a un’esigenza strategica della mafia, che era quella di eliminare quella parte dello Stato che finalmente, dopo decenni di complicità, era scesa contro i suoi poteri, che aveva ingaggiato una lotta che sembrava decisiva per la sua stessa sopravvivenza”
“Nel 2000, ‘Cosa nostra’ voleva uccidere un altro magistrato, Leonardo Guarnotta, ex Giudice Istruttore che, con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, ha istruito il maxiprocesso”
“Qualche volta Sentivo nel silenzio delle stanze la voce di Giovanni che mi diceva ‘Leonardo vedi che si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato’. Se penso a quello che è successo dopo, era una frase profetica…”
“Perché profetica, ce lo ricordi…”
“Per la sconfitta subita al CSM, quando lo Stato che avrebbe dovuto accertare se la procura Antimafia avesse dovuto proseguire, ha detto no. Bastava quello che era stato fatto. Ho avuto la sensazione sempre che una parte delle istituzioni, minoritaria, ci avesse sostenuto… ma forse la parte maggioritaria delle istituzioni, stava al balcone aspettando come la competizione tra noi e ‘Cosa nostra’ andasse a finire… e ho sempre pensato un’altra cosa, che con ‘Cosa nostra’ si è riusciti a sconfiggere l’omertà, ora dovrebbe finire l’omertà dello Stato”
“Cosa manca?”
“Manca l’atto finale… cos’è accaduto… il ricordo di Giovanni e di Paolo non dev’essere fatto soltanto il 23 maggio e il 19 luglio… ma in tutti gli altri 364 giorni dell’anno, per ricordare quello che hanno fatto per noi questi due servitori dello Stato, che lo Stato non ha saputo salvaguardare…”
Non si sentono più le voci delle autoradio. È calato il silenzio. Quel silenzio pesante che è sceso sulle stragi. Ed è con questo silenzio, che l’angoscia aumenta. Terminate le interviste della Pedditzi, non sei fuori dall’inferno. Sei uscito dall’inferno di quell’autostrada per precipitare nell’inferno dei silenzi, in quello dei misteri, in quelle amicizie postume dei due magistrati, che amicizie non erano mai state…
Gjm