È vero, le sentenze non si discutono, ma dinanzi talune vicende giudiziarie mi torna alla mente una frase – non ricordo di chi – che pressappoco recitava così: una sentenza non è l’esito di un’indagine che porta alla verità, ma soltanto la risoluzione di una lite tra le parti.
Una frase che di recente ho ricordato un paio di volte. La prima volta, quando un noto ex magistrato ha affermato che si deve stare dalla parte dei cittadini e non dalla parte dei magistrati. La seconda volta, dopo aver appreso della sentenza di condanna in capo a tre ex ufficiali del Ros per il cosiddetto processo “Trattativa Stato-mafia”.
All’ex magistrato – io che magistrato non sono – avrei voluto rispondere che non si deve stare né dalla parte dei cittadini e neppure da quella dei magistrati, ma soltanto dalla parte della Giustizia e della Verità. Nel secondo caso, pur essendo un convinto assertore che la legge è dura ma va rispettata e che le sentenze non si discutono, in considerazione del fatto che ormai anche chi per ruolo dovrebbe avere rispetto del secondo principio e non ne tiene conto alcuno, ritengo di essere legittimato a poter esprimere un’opinione o interrogarmi su taluni aspetti della vicenda.
Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza, ma tutto mi sembra fuorché “una pagina di storia del nostro Paese”, così come è stata definita. La cosiddetta “trattativa”, che si sarebbe risolta nel reato di “violenza o minaccia ai danni del corpo politico dello Stato”, ha visto condannati i tre ex ufficiali dei carabinieri a pene che vanno dagli 8 ai 12 anni. La prima cosa che mi stupisce, è il fatto che tra i carabinieri condannati per la “trattativa”, insieme a Marcello Dell’Utri, ci sia chi testimoniò al processo contro lo stesso Dell’Utri, che venne poi condannato per concorso esterno. Andando avanti, mi chiedo per conto di chi agirono i carabinieri. Se il governo Berlusconi fu “vittima” della “trattativa”, così come chi lo precedette, chi chiese ai carabinieri di contattare Vito Ciancimino per porre fine alle stragi? E, soprattutto, cosa guadagnò “cosa nostra” dalla “trattativa”?
A ben vedere le presunte richieste, la mafia non ottenne nulla. Anzi, se potessimo leggere con certezza le parole di Brusca, il “regalo” ai carabinieri sarebbe da ricercare proprio in questo… Nessuno infatti cancellò il 41bis o l’ergastolo, né ottennero altre agevolazioni che, semmai, avevano ottenuto precedentemente alla “trattativa” o, in epoca più recente, sono state proposte da formazioni politiche notoriamente vicine alle frange più dure dell’antimafia, senza che in cambio venisse chiesto nulla ai mafiosi. Un regalo senza contropartita.
In considerazione degli arresti effettuati dagli stessi carabinieri (sia prima che dopo la “trattativa”) del fatto che nulla è stato concesso a “cosa nostra”, in attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza, mi chiedo perché l’impegno profuso per scoprire se c’era un piano per impedire nuove stragi non è stato meglio orientato per capire chi le stragi le volle e, vista l’attenta strategia messa in atto da chi prese parte o agevolò i depistaggi (Via D’ Amelio docet), individuare quei segmenti marci delle istituzioni che sembrano aleggiare su quei drammatici avvenimenti.
Ritorniamo dunque al valore probatorio delle propalazioni di alcuni pentiti.
Non si può parlare di Via D’Amelio senza fare riferimento a Matteo Messina Denaro (attualmente imputato contumace al processo a suo carico a Caltanissetta) e al “pentito” Vincenzo Calcara, l’uomo d’onore “riservato” al quale, a suo dire, era stato commissionato l’omicidio del Giudice Paolo Borsellino. Quello stesso pentito che all’epoca dei fatti si guardò bene dal fare il nome di Matteo Messina Denaro, ma le cui false accuse, insieme a quelle di altri poi sconfessati, probabilmente contribuirono a tener lontani dalla verità gli inquirenti.
Già settimane prima che “L’Espresso” pubblicasse l’articolo a firma di Lirio Abbate su un presunto testimone che avrebbe incontrato Matteo Messina Denaro (tale signor Gino, nome di fantasia al quale – certamente per pura coincidenza – è stato attribuito un nome carico di ben altri significati…) avevamo pubblicato di un altro testimone e di alcune “anomalie” nella gestione di alcuni pentiti. Spatola, Filippello, Scavuzzo, Grimaldi, Calcara; che ruolo hanno avuto nel mantenere lontani dalla verità gli inquirenti? A beneficio di chi? Perché, secondo quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia Pellegrino Benedetto di Castelvetrano, Calcara lo “aveva fatto convocare presso la Caserma Carabinieri di Piazza Venezia a Roma”?
La conoscenza tra Pellegrino e Calcara risale a quando entrambi si ritrovano detenuti presso il carcere di Trapani. Calcara, lo portò poi a conoscenza delle sue intenzioni di offrirsi di collaborare con gli inquirenti per ottenere in cambio qualche beneficio. Nel 1991 – durante un altro periodo di detenzione trascorso insieme presso il carcere di Marsala – Calcara illustra a Pellegrino il suo progetto di accusare di reati personalità politicamente in vista, per crearsi una certa credibilità nei confronti della magistratura. In quella circostanza, per la prima volta, fa il nome di Antonio Vaccarino. Colui che avrebbe poi accusato di essere il capomafia che gli aveva commissionato l’omicidio del Giudice Paolo Borsellino. Vaccarino, è bene ricordare, venne poi assolto dalle accuse per reati di mafia.
E se fin qui l’idea del Calcara sembrava essere soltanto la premeditazione di un espediente che potesse garantirgli qualche beneficio, la dimostrazione che qualcosa di diverso era nel frattempo avvenuta, Pellegrino l’avrà in un successivo incontro. Questa volta, dopo che entrambi avevano assunto il ruolo di collaboratori di giustizia.
Un incontro che a differenza delle volte precedenti – secondo quanto dichiarato da Pellegrino – avvenne in una caserma dei Carabinieri. La caserma, è quella di Piazza Venezia a Roma, dove Pellegrino, tra il 1996 e il 1997, convocato da un magistrato della procura di Marsala per essere interrogato nella qualità di collaboratore di giustizia, prima dell’interrogatorio, in una sala della stessa caserma, incontra Vincenzo Calcara.
Potevano i due pentiti incontrarsi? Cosa ci faceva lì Calcara? Perché sembrava muoversi in quell’edificio con estrema disinvoltura?
Ovvio che i due pentiti non avrebbero dovuto incontrarsi per evitare che potessero accordarsi tra loro. Cosa ci faceva lì il Calcara? “In quella circostanza – dichiara Pellegrino – mi invitò a fare un fronte comune al fine di ottenere benefici e soldi”. Un invito a condividere ed avallare le accuse contro l’allora commissario Germanà, contro l’onorevole Culicchia, il professore Vaccarino e il vicequestore Messineo. Pellegrino avrebbe dovuto imparare a memoria le accuse, coinvolgendo i soggetti in questione indicandoli come collusi o appartenenti a “cosa nostra” al fine di toglierli di mezzo. In cambio, ne avrebbe ricevuto benefici e denaro. Secondo Calcara, dietro l’operazione che gli proponeva c’erano due funzionari dei servizi segreti e il collaboratore del Giudice Borsellino, Carmelo Canale, che in quel momento – a dire del Calcara era presente in quella sede.
Ma non il solo Pellegrino sarebbe stato “avvicinato” in quella maniera, visto che nella circostanza anche a tale Vincenzo Di Giovanna, coimputato in diversi procedimenti penali insieme a Pellegrino, stando a quanto riferitogli dal Calcara, sarebbero state fatte le medesime proposte di collaborazione.
Calcara si faceva vanto di poter organizzare questi “incontri tra pentiti” perché era potente e nessuno faceva caso a questo genere di convivi, nel corso dei quali i “pentiti” avrebbero dovuto imparare a memoria le accuse. Compreso quelle che indicavano in Vaccarino il capomafia che – tra le altre cose – autorizzava i traffici di droga di Torino e dell’aeroporto di Linate. Un traffico al quale avrebbero preso parte i turchi…
Già, proprio cose turche, ma funzionali a togliere di mezzo soggetti come Germanà e Messineo – oltre Vaccarino e Culicchia – che durante quel periodo intralciavano la mafia trapanese. Quella stessa mafia che vede in Matteo Messina Denaro un uomo da santificare, paragonato dai suoi a Padre Pio.
E mentre a Caltanissetta al processo al nuovo santo sembra sia stata messa la sordina, la grancassa batte per la condanna dei carabinieri… Dura lex, sed lex!
Gian J. Morici