Ci abbiamo scherzato su, ci siamo rifiutati di dare la dignità di un’analisi seria a un articolo che a buon titolo poteva essere utilizzato come canovaccio sul quale costruire un’opera satirica.
Ma nonostante tutto, tra il serio e il faceto, a chiusura dell’articolo sui “tre euro buttati via”, un piccolo dubbio lo avevamo avanzato.
Il Signor Gino, il supertestimone che avrebbe incontrato Matteo Messina Denaro, chi è? Perché narra una storia inverosimile?
A chiusura dell’articolo ci siamo chiesti se non potesse essere un secondo Calcara; o se fosse soltanto un personaggio degno di un pezzo di folklore siciliano, come ormai siamo abituati a vedere nelle sale cinematografiche o nelle fiction televisive.
Vincenzo Calcara è uno dei pentiti più screditati della storia giudiziaria del dopo Falcone e Borsellino. Si era spacciato per uomo d’onore della famiglia di Castelvetrano, ma non lo conosceva nessuno. Né tantomeno lui sapeva di Matteo Messina Denaro, figlio del capofamiglia.
Calcara, così come altri tre falsi pentiti di quella zona e di quel periodo, fu utile strumento per depistare le indagini sul gotha mafioso del trapanese prima, e sulle stragi del ’92 poi.
Qualcosa già ci frullava nella mente. Il dubbio. Quel dubbio che ti assale quando le coincidenze sono tante, troppe.
Calcara, un uomo da poco, che per costruirsi un personaggio credibile dovette inventarsi di essere un “uomo d’onore riservato”, mentre in realtà, stando agli esisti processuali, era un signor nessuno, un “nuddu ammiscatu cu nenti”, come si dice in Sicilia…
Il fantomatico Signor Gino dell’articolo di Lirio Abbate, un “nuddu ammiscatu cu nenti”, che incontra il super latitante Matteo Messina Denaro al porto di Palermo, poiché ha ricevuto da un siciliano – che solo tre giorni prima gli aveva proposto di lavorare per lui – l’incarico di portare in Sicilia una valigetta piena di denaro contante.
Ma è rileggendo alcuni stralci della sentenza del processo “Capaci Bis”, che il tarlo rode sempre più a fondo: “Falcone aveva raccolto una serie di appunti per difendersi al Consiglio Superiore della Magistratura da una serie di attacchi, che prima furono di natura giornalistica, poi divennero dei veri e propri atti di accusa…”
Una delegittimazione passata a mezzo stampa. Certamente non consapevolmente, ma comunque utile ai progetti di “cosa nostra”.
Ancor più chiaro, quanto dichiarato dal pentito Antonino Giuffré nel corso del processo, in merito alla campagna di delegittimazione ordita in danno di Giovanni Falcone, sottolineando come la campagna di delegittimazione di Giovanni Falcone, partita dentro “cosa nostra”, si fosse sviluppata grazie al fattivo apporto di settori del mondo professionale, imprenditoriale, politico, e alcuni magistrati “complici”.
E il tarlo nella mente, continua a farsi strada. La matrice istituzionale del depistaggio sulle stragi, fa parte della nostra storia giudiziaria.
Chi è il signor Gino?
Stando all’interpretazione delle motivazioni dell’art. 416 bis, ovvero il reato di associazione mafiosa, una delle tutele che s’impone l’articolo, riguarda il corretto andamento dell’ordine economico, con particolare riferimento all’attività di riciclaggio.
Lo stesso articolo, prevede che “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni”.
Orbene, nell’aver accettato di “lavorare” per conto di un uomo di “cosa nostra”; nell’aver accettato di trasportare una valigetta piena di denaro contante, per conto di soggetti legati a “cosa nostra” e alla “ ‘ndrangheta”; nell’aver consegnato agli stessi, e al loro boss latitante, il denaro di cui sopra, non si configura il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso?
Se così fosse, dovremmo dedurne che il signor Gino è un “collaboratore di giustizia”. Uno di quelli che comunemente vengono definiti “pentiti”.
E se è un pentito, considerato il fatto che stando a quanto riportato nell’articolo de “L’Espresso” le sue propalazioni sono al vaglio dei magistrati di Firenze, non violerebbe tanto il segreto istruttorio quanto le prescrizioni previste dal programma di protezione accordato ai collaboratori di giustizia?
A queste due domande, forse dovrebbero rispondere la magistratura inquirente e chi ha fatto il presunto scoop.
E se fosse uno scoop, nel quale l’ignaro giornalista avrebbe avuto solo il ruolo di propagandare una delle tante “pseudo-verità” che si favoleggiano sull’imprendibile Matteo Messina Denaro?
Ci troveremmo dinanzi due possibilità.
La prima, quella di un millantatore (il signor Gino) in cerca di notorietà o chissà cosa altro; la seconda, l’ipotesi peggiore, l’ennesimo Calcara a cui è stato affidato il compito di deviare in maniera scientifica le indagini sul boss latitante.
Tutto questo avviene a distanza di quasi due mesi da quando abbiamo scritto di riunioni tenutesi a Castelvetrano nel ’91, periodo antecedente alle stragi di Capaci e Via D’Amelio, alla presenza di Matteo Messina Denaro, del padre Francesco, di soggetti politici e di imprenditori.
Riunioni non avulse alla fase preparatoria delle stragi, rispetto le quali esisterebbe un testimone oculare che già lo scorso anno avrebbe dato la disponibilità a raccontare di quegli incontri tra mafia e politica.
Un caso?
Forse sì, ma questo non ci impedirà di raccontare ai nostri lettori gli intrecci mafia-politica – e non solo quelli – di quel maledetto periodo che portò alle stragi. Lo dobbiamo a Falcone, Borsellino, agli uomini delle loro scorte, alle tante vittime del dovere, alle vittime innocenti di mafia. Non chiedeteci se abbiamo timori, se qualcosa può veramente farci paura. Se ne abbiamo o meno, non cambierà nulla, continueremo ad andare avanti seriamente…
Gian J. Morici
Quel Calcara è il tizio che voleva incontrare i miei studenti liceali di Castelvetrano. Per essermi rifiutato sono stato crocifisso e posto alla gogna, come un mafioso o amico dei mafiosi anche da chi conosceva bene il mio vissuto e la mia storia personale!