In un’intervista resa a Giorgio Gandolo per “La Verità” (che l’ha pubblicata sabato 25 marzo) Silvio Berlusconi torna a parlare della sua visione e dei suoi progetti per un ritorno al potere del Centrodestra. Che di ritorno al potere, piuttosto che di rifondazione di un’autentica forza politico organizzata, di un partito, di una solida coalizione, senza che il Cavaliere voglia continuare a palare. Secondo la sua abitudine ed a causa dei suoi limiti, che sembra altro non gli consentano.
Non mi aspetto, oramai, che possa venire da Berlusconi, e forse da qualsiasi altra personalità, gruppo, forza intellettuale, un progetto, una spinta, un disegno per la costituzione di una forza politica, di un modo di affrontare i problemi del Paese e dell’Europa, di individuarli e creare nell’opinione pubblica, nelle menti e nelle coscienze, un diverso atteggiamento, un nuovo rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Cioè una nuova democrazia. Berlusconi non è certo un ideologo ed ha rappresentato e, forse, ancora rappresenta, quel tanto di necessario pragmatismo che è anche la reazione all’ubriacatura delle ideologie inamidate del secolo XX.
Ma è anche certo che Berlusconi, se ha saputo vincere le elezioni, non ha mai saputo non solo realizzare, ma anche concepire, capire che cosa sia una forza politica capace di conquistare il potere, ma anche di rimanerne fuori, di contrastarlo positivamente, di rappresentare l’alternativa ad ogni diverso assetto delle maggioranze e dei governi.
Berlusconi parla sempre come se si trattasse di acchiappare l’ultimo voto, cosa necessaria per vincere, ma non altrettanto per essere indispensabile o, almeno, necessario. Il suo continuo rifugiarsi nei luoghi comuni non è tanto e non è solo questione di cultura e di capacità intellettuale, è conseguenza di una scelta: quella di comportarsi e di pensare come se il successo, la vittoria fossero dietro l’angolo. Che non è ricetta per tutte le stagioni e passaggio obbligato e sufficiente anche solo per poter vincere. Quando si può.
L’intervista a Gandolo è, al solito, piena di luoghi comuni. Solo un po’ meno del solito.
In compenso c’è un’affermazione grave, che è sperabile (anche se ciò non ne attenua granché la portata) sia frutto di una scarsa comprensione del suo significato: “I veri populisti siamo noi di Forza Italia”.
Ma il vero, uggioso, trito e ritrito luogo comune è quello dei “professionisti” della politica, che, poi, implica, con necessaria antitesi, quello più grave (e vero) dei “dilettanti”.
Berlusconi vuole “mettere” nelle liste elettorali e, poi, in Parlamento (è contrario alle preferenze) metà dilettanti, che lui chiama, (con termine in sé inconcludente, salvo, forse per ciò che riguarda la parola “presi”) “presi dalla società civile”.
E’ veramente allarmante questa corriva e dilagante diffidenza verso la “professionalità” dell’uomo politico e la corrispondente, ineludibile preferenza alternativa per i “dilettanti”.
Che Berlusconi che è divenuto professionista della politica quasi all’improvviso, nutra tali convincimenti, non stupisce e, tuttavia, allarma, perché sono convincimenti largamente condivisi e, probabilmente, proprio per questo, insistentemente ad essi egli si riporta e li conferma.
Ma che abbia senso sostenere che a fare il deputato ed il senatore, il sottosegretario e il ministro sia meglio adatto un capitano d’industria degli elettrodomestici che voglia permettersi una “diversione” dalla monotonia degli affari, piuttosto che chi abbia fatto, appunto, professione di una fede politica dedicandosi ad una adeguata preparazione e che abbia, magari indirizzato e condizionato la sua vita professionale a tale finalità, è una solenne sciocchezza.
Oramai la complessità della macchina dei pubblici poteri e dell’intreccio delle questioni politiche è tale da richiedere, per chi voglia affrontarla, una lunga preparazione e l’impegno di una vita.
Certo, vi possono essere dei Parlamentari di lungo corso che dopo anni non hanno mai aperto e consultato il regolamento della Camera e Ministri altrettanto ignoranti, malgrado abbiano fatto il giro di vari ministeri. Perpetui dilettanti. Ma proprio per questo c’è da esigere e da sperare che si formi un ceto politico di autentici e validi “professionisti”, che “professi” tali difficili impegni.
Se sono portato a dire che complessivamente in questa intervista il Cavaliere è meno corrivo con i soliti luoghi comuni e mostra delle aperture ad un più serio (??) pensiero politico è perché sembra finalmente avvertire l’incombere del Partito dei Magistrati, come fenomeno allarmante di “giurisdizionalizzazione” della vita pubblica, non solo in Italia. Lo preoccupa, ad eempio, quanto accade in America con Trump.
Ma a questo giudizio un po’ meglio centrato su magistrati e giustizia, si aggiunge:
“Quando provai a mettere sul tappeto la riforma della Giustizia, diverse mani si levarono subito per dirmi che, se non avessi ritirato immediatamente il provvedimento, il Governo sarebbe caduto il giorno stesso. Mi spiegarono che c’era da parte loro, dei leader di alcuni partiti della maggioranza, un impegno d’onore (?!???) a valutare ogni norma con noti esponenti della magistratura. Che rivoluzione liberale si poteva fare con questi compagni di strada?”.
Già, che si poteva fare? E che cosa si può fare ora e come si può parlare di unità dei “moderati” così immoderatamente succubi (tra l’altro) del Partito dei Magistrati?
Caro Cavaliere: che vuol dire tutto ciò? La rivoluzione liberale l’ha del tutto dimenticata o, ora che fa questa rivelazione, vuol dire che ci sta ripensando?
Mauro Mellini