Non è facilissimo capire perché l’Antimafia demenziale, buffona e complottista ce l’abbia con Napolitano. Ma è tutt’altro che impossibile capirlo.
Anche recentemente, alla “grande adunata-flop” a sostegno di Di Matteo a Roma, Napolitano è stato bersaglio preferito degli strali-stravaganti di un Ingroia, che lo ha definito il “padre”, anzi (visto, forse, che per alcuni giuristi dell’epoca in cui il DNA era di là da venire “pater semper incertus”), il “padre principale” dell’assoluzione di Calogero Mannino. Ora l’ingegnere “Fratello della Vittima” leader delle “Agende Rosse”, una delle confraternite oltranziste della claque antimafia palermitana, va indietro negli anni e scopre che Napolitano è stato rieletto per un secondo mandato presidenziale per “coprire” la “trattativa Stato-Mafia” (il fatto che si sia dimesso dovrebbe, dunque significare che, con la falsificazione delle intercettazioni degli sfoghi di Totò Riina etc. etc., tutto è oramai archiviato).
Perché Napolitano è stato e continua ancora ad essere il bersaglio preferito dell’azione complottista di certa gente?
Oggettivamente sembra difficile negare che l’ex Presidente della Repubblica, non è stato partecipe del giuoco dei golpisti, magari ottenendo la “scoperta”, mediante un’ennesima falsificazione di trascrizioni di intercettazioni o, al limite mediante la traduzione di qualche pizzino “in caratteri fenici” di un progetto di attentato anche alla sua persona, come è accaduto ad un certo disinvolto ministro. Ma non è stato neppure all’altezza dei suoi doveri di Capo dello Stato, di fronte ad un complotto diretto contro le istituzioni e chi le rappresentava e contro chi era impegnato, non con le chiacchiere, ma con una paziente e pericolosa opera investigativa e repressiva, contro la mafia.
E’ questa che io faccio un’affermazione di cui non mi sfugge la gravità e che mi costa non poco disagio, non essendo quella del censore una funzione che molto mi si confaccia. Ma a questa convinzione troppo elementi mi costringono. E la rilettura che in questi giorni ho fatto della drammatica lettera di Loris D’Ambrosio e diretta a Napolitano, è valsa a rendere definitivo il mio convincimento.
D’Ambrosio, individuato come “colpevole” di una telefonata intercettata con Mancino, oggetto di vergognosa distorsione, diretta ad “interpretarla” come prova della “delittuosa” trattativa, con quella lettera non si limitava a proclamarsi innocente. Né si limitava ad avvertire Napolitano che, colpendo lui, era il Presidente che si voleva coinvolgere. Denunciava un vero e proprio complotto, la cui esistenza, del resto, non poteva essere sfuggita a Napolitano. Quest’ultimo non è un giurista. Ma per capire che un processo per “tentativo di sottostare al ricatto stragista della mafia” è una baggianata solenne o è un miserabile espediente eversivo, non c’è bisogno di aver consumato la vita sui trattati di diritto penale e, magari, di diritto costituzionale.
La morte improvvisa di D’Ambrosio, stroncato, come una volta si diceva, dal crepacuore per tanta perfidia, anziché conferire a quel dolente e doveroso atto di un componente dell’equipe presidenziale il valore di un estremo grido d’allarme di un fedele servitore dello Stato, si direbbe abbia fatto tirare un sospiro di sollievo a molte persone: complottisti e vittime (con lo Stato) del complotto.
Che ha fatto Napolitano? Si è messo sulla difensiva, come ha diritto di fare un imputato qualsiasi. Ha, giustamente, protestato per le intercettazioni delle telefonate fatte con lui, ottenendo la distruzione delle registrazioni, che, alla fin fine, giova più ai complottisti, falsificatori incorreggibili ed impudenti, che alla sua persona ed al suo altissimo ruolo, allo Stato.
Che avrebbe dovuto fare? Troppe cose, in verità. Certo avrebbe dovuto reagire al complotto, denunziarlo al Paese, non lasciare che rimanesse tranquillamente impunito.
Avrebbe, quanto meno, dovuto compiere qualche gesto di esplicita o, almeno, implicita solidarietà nei confronti della persone colpite per colpire le istituzioni (Giovanni Paolo II espresse pubblicamente e manifestamente la sua solidarietà ad Andreotti soffermandosi, durante una cerimonia, a parlare con lui in Piazza San Pietro mentre era accusato di tutto e di più). E Napolitano avrebbe potuto fare molte altre cose.
Si dirà: ma l’antimafia complottista, per quanto demenziale, continua ad attaccare Napolitano, gli attribuiscono persino l’assoluzi8one di Mannino, dunque… Dunque Napolitano continua a pagare il prezzo delle sue debolezze.
Colpire il nemico dove si dimostra (e quando si dimostra) più debole, meno reattivo. E questa antica regola della strategia sui campi di battaglia e nelle rivolte di palazzo, nei colpi di Stato.
Una reazione ferma e testarda, ma sostanzialmente episodica ed inconcludente, forse Napolitano l’ha avuta.
Quando Renzi presentò la lista del suo governo al Capo dello Stato, al Ministero della Giustizia, figurava un magistrato “antimafia” ultras (del ramo calabrese), Gratteri, più vicino ai fanatici palermitani che alle posizioni della maggioranza del Partito dei Magistrati (eversivo soft…). Renzi evidentemente, non voleva storie né con il P.d.M. (malgrado qualche “ammuina”) né con la “scheggia impazzita”. Napolitano puntò i piedi, sollevando anche questioni “formali” (Gratteri non aveva già provveduto a “mettersi fuori ruolo”).
Il braccio di ferro ritardò il varo del governo.
Formalmente la spuntò Napolitano. Ma Renzi rispose mettendo alla Giustizia il classico “signor nessuno” (“omm’è gnente”, come dicono i napoletani), Orlando (che nessuno confonderebbe con il suo predecessore alla giustizia nel governo Giolitti). Cui, poi, mise come “badante” proprio Gratteri a capo di una commissione per le riforme in cui un simile giurista è comunque, o dovrebbe essere, a disagio.
Misura anche questa difensiva.
Dal Quirinale non una parola, né allora né poi, non un gesto di qualche efficacia o rilevanza è stato compiuto, contro il complotto, contro il golpe. Un ridicolo “si salvi chi può” ha caratterizzato la risposta ad un golpe di dementi buffoni. Si fa presto a dire che la speranza è l’ultima a morire. Anch’essa tende, si direbbe, a salvarsi da un’accusa di connivenza.
Mauro Mellini