I racconti vengono dalle direzioni più impensate. Questo arriva da una foto, la foto allegata.
L’ha scattata Emi. Sì, proprio lui!
La Tina ne sentì parlare dalla signora Jolanda, anzi, signorina prego, come teneva a rimarcare ogni volta. Una vecchia zitella che abitava al pianoterra, in una posizione strategica per incrociare tutti quelli che entravano ed uscivano dal palazzo, e in buona sostanza farsi gli affari di tutti.
La Tina, che di questioni dolorose e irrisolte ne avrebbe potuto riempire l’agenda di dieci psicanalisti, evitava la signorina Jolanda come la peste, tanto sapeva bene dove sarebbero andati a parare tutti i discorsi: “Ehhhhhhh ma suo mariiiiitooooo” parlava trascinando le vocali, la signorina Jolanda, “non l’ha piuuuù sentiiiiitoooo? ma è verooooo che sta in giappoooooneeeee?”.
Se c’era un argomento di cui la Tina non aveva voglia di parlare era suo marito; avrebbe voluto poter dire “ex” marito, ma quel farabutto era scomparso nel nulla prima che le pratiche di divorzio fossero completate, e ora poteva solo sperare che qualche giudice accomodante lo facesse dichiarare morto.
La signorina Jolanda sapeva bene – perché lei sapeva tutto – che il marito della Tina se ne era andato via con una ballerina moldava, o ucraina, insomma una ballerina, quando loro figlio aveva neanche dieci anni, lasciandola senza una lira, con debiti su tutto: sulla casa, sulla macchina, si era impegnato anche la televisione quel bastardo.
Poi era ricomparso una sera dopo qualche anno, magro, emaciato, chiedendo di tornare a casa. Davanti allo sguardo sconvolto di suo figlio, la Tina lo aveva cacciato definitivamente, e non ne aveva saputo più nulla.
Ecco, solo il pensare alla signorina Jolanda aveva portato il suo cervello a ricordare quel disgraziato, per questo la evitava sempre.
Ma quella mattina non poté farne a meno: il frigorifero non dava più segni di vita, aveva fatto una spesa importante solo il giorno prima, che doveva durare tutta la settimana, e ora il frigorifero era morto. Defunto. Con la spesa dentro a macerare e zero soldi in tasca per comprarne uno nuovo.
Tina pensò che forse la signorina Jolanda conosceva qualcuno che avesse un frigorifero da prestargli, anche piccolo; magari qualcuno che lo stava per comprare nuovo e non sapeva dove mettere il vecchio o dove poterlo buttare; magari qualcuno che ne aveva uno in campagna; magari qualcuno che…
– Non c’è bisogno di cambiaaaaarlo, lo facciamo riparaaaare! – disse la signorina Jolanda con la sua voce squillante ed entusiasta, interrompendo il flusso dei pensieri della donna.
La Tina la guardò alzando un sopracciglio.
– Credo che sia al di là di qualsiasi riparazione, purtroppo… –
– Ma nooooo! – disse la Jolanda prendendola sottobraccio e parlandole affabilmente, grata di potersi finalmente intromettere nella sua vita privata – c’è un tizio del quartieeeeeere che ripaaaaara frigoriferi. Solo frigoriferi e solo vecchi. Lo fa praticameeeeente per hobby, è braviiiiissimo e non chiede quasi nulla. Adesso lo chiamiaaaaamo e vedrà che sistemerà il suo frigoriiiiifero –
La Tina era un po’ titubante.
– Non so…i frigoriferi si possono riparare? magari sarà necessario qualche costoso pezzo di ricambio, magari è rotto il motore, e poi chi è questo tizio qui? come si chiama? – diffidava dalle soluzioni facili, la Tina; era una donna che aveva faticato tutta la vita, e niente era venuto via gratis.
– Aaaaahhhhh boooooohhhhh – rispose la signorina Jolanda – mica lo soooooo! Noi lo chiamiamo “l’ominooooo dei frigoriiiiferi”.
E senza aggiungere altro compose un numero che aveva segnato a penna su una vecchia agenda di “Frate Indovino” del 1982, l’anno dei mondiali.
Mentre parlottava al telefono si allontanò, ma dopo poco tornò trionfante.
– Arrivaaaaaa! Arriva tra ciiiinque minuuuti! –
La Tina non sapeva che fare, si morse il labbro per un po’, poi disse:
– Va bene, peggio di così non potrà fare, no!? Vado a casa ad aspettarlo – e prese le scale quasi di corsa, per evitare che alla signorina Jolanda venisse in mente di seguirla.
Arrivata a casa si mise a rassettare qua e là, poi tolse dal frigorifero il cibo che poteva resistere un po’ di più, ma non fece in tempo a fare gran che perché il campanello della porta di casa suonò insistentemente.
La donna rimase un attimo interdetta, diede un rapido sguardo all’orologio solo per rendersi conto che di minuti ne erano passati si e no tre, e poi si diresse verso la porta.
Quando la aprì quello che le si presentò davanti più che un idraulico specializzato sembrava un ragioniere del catasto.
Era un ometto di non più di un metro e sessanta, calvo, con pochi capelli bianchi qua e là, degli occhiali cerchiati d’oro terribilmente vecchi, e un sorriso contagioso.
Indossava un paio di jeans, una camicia di flanella, e in mano aveva una grossa cassetta degli attrezzi rossa, di metallo, con il coperchio nero.
Alla vista dell’uomo la Tina non poté fare a meno di sorridere ma lo lasciò entrare lo stesso.
Lo ringraziò per la solerzia mentre lo guidava verso la cucina, lui si schermì, e intanto aveva già appoggiato la cassetta a terra e aperto il frigo.
Quello che si dice non perdere tempo, pensò la Tina.
– Posso offrirle un caffè, signor…. –
– Emi – disse pronto l’ometto – mi chiamo Emi, ma no, grazie, non bevo caffè –
E così dicendo si rimise al lavoro.
Per un po’ la donna lo guardò lavorare alacremente, poi, visto che lui non la filava minimamente, se ne andò in un’altra stanza.
Non passò più di una mezz’ora, che la Tina improvvisamente sentì il classico rumore del motore di un frigorifero quando attacca.
Arrivò quasi di corsa in cucina, per vedere il signor Emi che chiudeva il frigo, e cominciava a riporre i suoi attrezzi nella cassetta.
– Funziona? – chiese timidamente la Tina.
– Certo – rispose l’ometto sorridendo – funziona benissimo! –
Lei rimase stupita, ma d’altronde cosa ne sapeva lei di frigoriferi e di come si riparano? Magari c’era solo un filo corroso, una presa lenta, cose così insomma.
– Quanto le devo? – chiese ad Emi prendendo il portafoglio.
L’omino agitò una mano sorridente.
– Nononono non mi deve niente. Mi sono divertito, non ho dovuto spendere soldi per pezzi di ricambio, e ci ho messo veramente pochi minuti. Ora scappo via perché ho un’altra riparazione urgente –
Non diede neanche tempo alla Tina di replicare, che era già sparito.
La donna rimase così, in silenzio, il portafoglio in mano e il rumore leggero del frigorifero che stava riportando il cibo a temperatura.
Quando suo figlio rientrò per la cena lei gli raccontò brevemente quello che era successo, il frigorifero che si era rotto, l’omino che lo aveva riparato, insomma tutta la storia.
Anselmo, ormai un ventenne alto e robusto che lavorava in un altoforno, sorrideva al racconto della madre, e tra una forchettata e l’altra guardava ridacchiando il frigorifero, finché non si fermò improvvisamente con la forchetta a mezz’aria e la bocca spalancata.
La Tina lo guardò preoccupata:
– E’ successo qualcosa? – chiese.
Lui indicò il frigorifero, il cui sportello era completamente coperto di magnetini, appunti, calamite, disegni, e disse quasi senza voce:
– Il sol levante –
La Tina si girò verso il frigo e capì istantaneamente.
Il magnetino del sol levante, l’unico regalo del padre ad Anselmo negli ultimi dieci anni, che di solito campeggiava al centro del frigorifero a fermare un disegno fatto dal ragazzo in prima elementare, non c’era più.
Anselmo e la Tina guardarono bene lungo tutto il frigorifero, poi sotto, di lato, sulla madia, per terra.
Niente.
Il sol levante era sparito.
I due si guardarono negli occhi per un momento, poi fu la Tina a parlare:
– L’omino dei frigoriferi – disse solo.
Un minuto dopo erano davanti alla porta della signora Jolanda e battevano furiosamente il pugno contro il legno per svegliarla, lei che alle sette già diceva le preghiere e si addormentava davanti alla TV.
Quando la donna aprì, ancora insonnolita, non le diedero il tempo di parlare:
– Dov’è? dove abita? dove sta Emi? – chiese la Tina.
– Eeeeemiiii? e chi è Eeeeeemiiii – biascicò la signorina Jolanda.
– L’omino dei frigoriferi!!! quello che ci ha mandato oggi! – urlò Anselmo ergendosi dal suo metro e novanta per spaventare la signorina Jolanda.
La quale si spaventò sul serio, divenne bianca come un cadavere, poi mandò giù un paio di volte la saliva, e infine disse:
– L’indirizzo esatto non lo so, ma abita al primo piano di quel palazzo sopra il panificio dei fratelli… –
I due non le fecero neanche terminare la frase, avevano capito a quale palazzo si riferiva la donna e corsero via senza indugiare.
Quando finalmente arrivarono davanti alla porta di casa dell’omino dei frigoriferi,si fermarono un attimo ad ascoltare.
Nessun suono proveniva dall’interno.
Sulla porta solo due iniziali: “E.P.”
Non c’erano a terra né un tappetino, un vaso di fiori, un ombrello ad asciugare, niente di niente.
Dopo aver atteso invano qualche minuto, sperando di sentire qualche segno di vita, si decisero a suonare il campanello.
Il suono del campanello non era ancora svanito del tutto che la porta di casa si aprì silenziosamente, e l’omino dei frigoriferi comparve sorridente.
– Benvenuti nella mia casa, sapevo che sarebbe successo prima o poi! Venite, venite di là, vi offro qualcosa da bere –
Così dicendo, senza attendere risposta, si diresse lungo uno stretto corridoio, con i due, madre e figlio, che lo seguivano senza avere il coraggio di rompere quel silenzio.
Il corridoio terminava in una porta, Emi l’aprì, e i due si trovarono immersi in una specie di fantasmagorico universo fatto di luci, riflessi, colori.,
Ci misero qualche secondo a capire che le pareti erano completamente ricoperte di magnetini da frigorifero di tutti i colori, forme, lingue.
L’omino prese la mano di Tina e la guidò verso una parete, invitandola a guardare verso il basso.
Lì, tra un “Welcome to Arizona” e una riproduzione in scala del Taj Mahal, c’era il sol levante che il padre di Anselmo gli aveva spedito, unico triste simbolo di un affetto non ricambiato, qualche anno prima.
La Tina alzò gli occhi verso l’omino mentre il figlio percorreva emozionato con lo sguardo tutte le pareti.
– Perché? – chiese la Tina – che cosa significa tutto questo? perché lei ruba i magnetini ai frigoriferi? è pazzo forse? è una mania? –
Emi sorrise, poi invitò i due ospiti a sedersi e offrì loro un bicchiere d’acqua prima di sedersi vicino a loro.
– Non sono pazzo, Tina – rispose sorridendo – Vedi, le persone tendono a conservare oggetti cari, che gli ricordano momenti felici, ma purtroppo anche oggetti che rinnovano il dolore di una perdita, di un amore lontano, di un amico con cui abbiamo chiuso ogni rapporto. Lo so, sono piccole cose, ma voi non potete immaginare quanto dolore permanga nella vita delle persone se continuano ad alimentare certi ricordi. Io lo sento. Sento questo dolore e cerco di aiutarvi a rimuoverlo. Faccio quello che posso; non sono il solo, né il migliore e non faccio grandi cose. Io…mi occupo dei magnetini dei frigoriferi. Lo so, non è gran che. Ci sono colleghi che aiutano a riposare, quelli che portano conforto la notte in ospedale, quelli che fanno svanire il ricordo di un amore impossibile. Ma è un bel po’ che faccio questo lavoro, e ora mi piace. –
Si fermò un attimo, si alzò, fece un gesto teatrale con la mano e poi riprese:
– Guardate. Guardate quanti brutti ricordi mi sono portato via in tutto questo tempo. Non pensate anche voi che sia meraviglioso? –
Tina e Anselmo si erano presi la mano, non avevano il coraggio di fare altre domande.
Poi Tina si schiarì la voce per chiedere:
– Ma tutti questi…tutti qui, nel nostro quartiere? –
Emi sorrise comprensivo.
– No Tina – rispose – certamente no. Oggi sono qui perché VOI avevate bisogno di me. Domani io e i miei magnetini saremo da un’altra parte; in un’altra casa, pronti ad ascoltare le sofferenze di altre persone, e a riparare altri frigoriferi –
Inclinò leggermente la testa da un lato, poi disse.
– E ora dovete tornare a casa. Dimenticate il magnetino del sol levante, e soprattutto dimenticate la persona che ve l’ha mandato. Non vi merita. La vostra vita è completa così, non avete bisogno di lui o del suo ricordo. –
Li accompagnò, quasi li spinse verso la porta.
Quando furono sul pianerottolo, istintivamente si girarono per guardare di nuovo, ma la porta non c’era più. Non c’era la porta di legno, e non c’era il campanello. Non c’era forse neanche più l’appartamento, ma non avrebbero potuto dirlo.
Si guardarono, si presero per mano, e tornarono a casa chiedendosi distrattamente perché erano usciti a quest’ora.
Forse a comprare il latte?