Sembra diventato un canarino. Venti lunghi anni di assoluto silenzio interrotti improvvisamente da una loquacità che appare quantomeno assai sospetta. Totò Riina – “u curtu” o “la bestia”, come veniva indicato dagli uomini di “cosa nostra” – intercettato dopo un’udienza del processo sul patto stretto tra pezzi dello Stato e boss, si sfoga durante l’ora d’aria con Alberto Lorusso, personaggio di spicco della “Sacra corona unita”.
Uno “sfogo” intriso di invettive contro i magistrati che conducono il processo sulla trattativa Stato-mafia, minacce, frecciatine nei confronti del suo amico Bernardo Provenzano. Il capo dei capi di “cosa nostra” ironizza su Berlusconi e nei suoi discorsi cita anche il presidente Napolitano e l’eventuale grazia concessa all’ex premier. I riferimenti e le invettive del vecchio boss sembrerebbero una chiamata alle armi ai “picciotti” affinchè colpiscano quelli che lui definisce “i cornuti che lo stanno facendo impazzire”: i magistrati!
Un possibile ritorno al periodo stragista di “cosa nostra” che ha imposto maggiori misure di protezione a tutela dei quattro pm coinvolti nel processo: l’aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Per la prima volta Riina, parlando con Lorusso, rivendica la piena paternità delle stragi di Capaci e via D’Amelio e alludendo a Giovanni Falcone che era stato invitato ad assistere alla mattanza dei tonni a Favignana, dice che “quello venne per i tonni e gli ho fatto fare la fine del tonno”.
Intercettazioni ambientali scottanti durante le quali gli investigatori della Dia ascoltano Riina che parla a ruota libera del periodo stragista, dell’attentato al giudice Rocco Chinnici, a Falcone e Borsellino. La rievocazione compiaciuta di quella che il sanguinario capo di “cosa nostra” ritiene una bella stagione di sangue. Una gloriosa stagione che non esiterebbe a ripetere: “Se fossi fuori, non starei a perdere tempo, a questi cornuti – riferendosi ai magistrati – gli macinerei le ossa”. Ma non soltanto di stragi parla Riina che a Lorusso lascia intendere di misteri che dietro le stesse si celano e dei quali aveva parlato con il boss Totò Cancemi, divenuto poi collaboratore di giustizia.
L’intercettazione ambientale del boss venne decisa all’inizio della scorsa estate, dopo che una lettera anonima aveva avvertito la Procura di Palermo che il boss dal carcere, attraverso il figlio, aveva dato l’assenso a un attentato contro il pm Nino Di Matteo.
Ma perché Riina dopo venti anni di silenzi dovrebbe dare oggi l’ordine di aprire una seconda stagione delle stragi? Perché lasciare trapelare le sue intenzioni parlandone con un boss della “Sacra corona unita”, se aveva già dato l’assenso agli uomini di “cosa nostra” attraverso suo figlio? E poi, qual è oggi il peso di “Totò u curtu” fuori dalla prigione?
Le parole di Riina convincono poco. In primo luogo l’assunzione totale di responsabilità sulle stragi del ’92. Non bisogna infatti dimenticare che l’unica volta in cui Riina ha accennato alle stragi, ha lasciato intendere ad una volontà di livello superiore a quello di “cosa nostra”. Un accenno dato a chi aveva orecchie per intendere affinchè intervenisse a garantire una migliore vivibilità a quanti sottoposti a regime di 41bis? Un messaggio affinché non venissero aggrediti i patrimoni dei boss? Del resto, un mafioso mette in conto il carcere e anche la morte. Ma la dura vita penitenziaria e la perdita del potere economico – che sta alla base di tutta la sua carriera criminale – risultano inaccettabili anche a chi – come Riina, detto “la bestia” – ha dimostrato di potere subire qualsiasi pena detentiva e di non aver timore di correre rischi per la propria incolumità.
È credibile oggi un vecchio che parla così tanto e che è così diverso dal boss che vidi attraverso i monitor nel giugno del 2012 quando partecipò in videoconferenza al processo celebratosi presso la Corte d’Assise d’appello di Palermo per la strage di San Giovanni Gemini (Agrigento), imputato insieme a Bernardo Provenzano e Pippo Calò? Un Riina che, poco più di un anno fa, appariva tranquillo e sereno, come se la cosa non lo riguardasse. A tal punto da scambiare qualche parola con l’agente della penitenziaria e di sorridere guardando il suo orologio. Come se l’unica cosa importante per un ergastolano fosse il tempo. Così diverso da Pippo Calò che sembrava stanco, invecchiato e infastidito. Così diverso da Bernardo Provenzano che dopo aver tentato in tutti i modi di farsi dichiarare non in grado di partecipare al processo che lo vedeva imputato, non assistette all’ultima udienza.
No. Non è credibile! Tra le tante tesi, quella esposta da “Il Fatto Quotidiano” secondo la quale Riina potrebbe temere che dal processo sulla trattativa venga fuori “la sua collaborazione con parti deviate dello Stato, che avrebbero usato lui e Cosa Nostra per portare avanti la strategia della tensione; e che alla fine avrebbero distrutto l’organizzazione mafiosa, uscita devastata dalla stagione delle stragi”, dando così di sé stesso l’immagine di colui che avrebbe causato la rovina dei suoi uomini lasciandosi usare da menti superiori.
Riina è certamente un uomo pratico. Un soldato, un sanguinario. Un uomo che, come più volte ho scritto di lui e di Provenzano, non può essere ai vertici della mafia, quella che per fatturato viene definita la prima azienda italiana. Ma non può essere solo il timore che tutto questo venga dimostrato a far sì che abbia concepito un piano del genere. È stato, e non so se lo è ancora, il capo del braccio armato. Ma ben altri sarebbero i nomi che dovrebbero comparire in cima a quell’elenco. “La bestia” ha già mostrato il suo volto e di cosa è capace, ma non ha certo dimostrato di essere quel manager, o quei manager, che possono pianificare operazioni finanziarie grazie alle quali riciclare miliardi di euro tramite società off-shore o di pilotare divise monetarie e investire in borsa.
Sarebbe come indicare l’amministratore delegato di una multinazionale, nel capo catena di una fabbrica. Riina forse si intende di “pizzini” ma la contabilità di un’azienda di quelle dimensioni non la si fa sui “pizzini”. Al massimo, quelli in Sicilia li scrivono le massaie per ricordarsi quello che devono comprare al supermercato. No. I vertici sono ben altri.
Considerato il momento politico che sta vivendo il Paese, sembra molto più credibile la lettura che del fatto dà il procuratore Francesco Messineo, secondo il quale le dichiarazioni di Riina potrebbero fornire “l’alibi perfetto” per nuove azioni stragiste a Palermo, organizzate e dirette da eventuali entità esterne a Cosa Nostra. Questo spiegherebbe il perché il boss è diventato all’improvviso loquace. Spiegherebbe la necessità di far sapere all’esterno delle sue presunte intenzioni e quella di intestarsi le stragi del ’92.
Ma tutto questo genera qualche interrogativo: Riina sapeva di essere intercettato? Lo era volutamente? L’anonimo della lettera, il nuovo Corvo, chi è? Che ruolo ha in tutto questo? E la stampa, facendo da megafono alle esternazioni del boss, non ha involontariamente contribuito al progetto?
Del resto, come già accaduto a seguito della pubblicazione della lettera inviata da un detenuto a regime di 41bis ad un noto quotidiano siciliano, i mafiosi hanno più volte utilizzato i media per fare passare all’esterno delle carceri i loro messaggi, i loro ordini o notizie utili a depistare inquirenti ed opinione pubblica.
Un’atmosfera nel suo complesso non molto diversa da quella che precedette le stragi, quando anche la Procura palermitana si trovò divisa da beghe interne alimentate dalle notizie stampa e da Corvi che nelle loro missive anonime a verità sconcertanti aggiungevano piccoli veleni personali. Veleni che a volte, direttamente o indirettamente, sembrano tornare utili a chi regge le fila di questo sporco gioco.
La storia si ripete?
Gian J. Morici