C’è un padre che ha trovato il coraggio di far vedere il suo dolore a tutti. Quello della perdita di una figlia piccola, morta non per eventi esterni ma per colpa sua. Quel tipo di ferite che non sempre la gente giudica belle da vedere, come si intravedessero le interiora del dramma e il suo sangue.
L’ha dimenticata in macchina per tre ore, sotto il sole, andando al lavoro, un anno fa.
Doveva portarla all’asilo, la bimba si è addormentata, lui l’ha completamente e involontariamente rimossa.
Dopo un anno ha raccontato quel terribile giorno.
“Stavamo cantando la canzone di Pippi Calzelunghe, poi lei si è assopita e io ho come avuto una rimozione, dentro di me l’avevo già lasciata”.
Retorico dirlo: non se lo perdonerà mai, magari qualcuno lo ha fatto, la moglie, qualcun altro invece lo avrà giudicato e sezionato, con la sicumera di chi, al suo posto, non avrebbe mai compiuto un simile gesto incosciente.
C’è una dignità da antieroe in quel dolore, una involuzione che ha fatto annullare senza volerlo tutto ciò che ti era più caro. Facile dire che non si è dato retta al cuore, un muscolo che parla sottovoce, mentre il cervello che ci organizza la giornata ha dentro le scimmie urlatrici.
Sappiamo benissimo come si aggredisce la vita, ogni giorno, sappiamo come prevaricare il prossimo, aver ragione dell’avversario. Il tutto azzannando per primi. Ma questo non è istinto, come vogliono farci credere. L’istinto porta l’essere umano a proteggere Il branco, prendersi cura dei simili, magari sano egoismo di sopravvivenza. Questa epoca invece ci snatura e ci lascia soli.
Non vogliamo altro bene se non il nostro, pretendiamo che gli altri si adeguino ai nostri canoni affettivi e ci vengano incontro. Sembriamo tante roccaforti medievali, ognuna col suo Signorotto pronto a dichiarare guerra al vicino. Guai poi chi resta indietro, chi arranca. In questo periodo di carenza di lavoro, ho sentito frasi denigratorie verso chi non lo trova o annaspa.
“Sei un fallito, non sei all’altezza, non sai trovarti un impiego”, stando alle ultime stime de: La Repubblica, I “falliti, che non trovano impiego”, sono più di un milione. Chissà se ognuno di loro la mattina si sente depresso. Sicuramente una parte in questo momento sta pure pensando che, forse, farla finita sarebbe la soluzione, poi caccia il pensiero come un moscone pernicioso e affronta la giornata.
Ma lo pensa sottovoce e non viene ascoltato. Abbiamo dei corti circuiti, poli invertiti nell’anima che fanno disimparare a capire. Pretendiamo indietro da altri le gratificazioni che ci siamo fustigati e negati noi stessi. E non ci siamo voluti bene, stiamo in riserva di comprensione che il prossimo dovrebbe accordarci seduta stante, mentre noi non ci perdoniamo e non perdoniamo. Forse dovremmo ricominciare a cantare con I bambini. E smetterla di essere roccaforti medievali con annesso Signorotto. Cominciamo a far pace col vicino, il più vicino di tutti, noi stessi, poi cantiamo una bella canzone ingenua.
Me ne viene in mente una oltre alla sigla di Pippi Calzelunghe. La guerra dei mutandoni. Sentita allo Zecchino d’oro. Sono dei bimbi che cantano “eh no! la guerra proprio no, tutti alla fine perdono, tutti alla fine piangono, bisogna che nel mondo si impari a dire no.”.
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