Ho solo le mie mani. Le mie mani e i colori negli occhi. Quelli per metterli sulla tela sono finiti da un pezzo. Insieme alle tele. E non posso comprarne.
A volte mi chiedo se poi queste mani sono stato un dono o uno scherzo del destino. Una specie di spinta crudele ad avvelenarmi da sola la vita. A distruggermela.
Ti guardo. Ti guardo mentre lavori, mentre sfuggi al mio sguardo che insiste e ti cerca. Ti guardo mentre mi parli guardando nel vuoto. Mentre mi riprendi dalle mani il tuo accendino. Mentre mi chiedi se ho fame e mi prepari il caffè. “Ti ho acceso il computer da là, quando hai finito di fumare puoi andare”. Non so se ti preferisco così o quando mi gridi contro quello che dovrei fare fino a farmi scappare. A volte ti leggo negli occhi, quando riesci a guardarmi, quella pietà che ti fa rabbia provare e che mi vergogno ma so di cercare.
Scappo ma poi torno sempre. Siamo amiche. Siamo state amiche. Forse per me sei stata qualcosa di più. Sei tante cose lontane da me e che non mi piacciono. Ma ti ho sempre visto come una luce splendente. Anche oggi, mentre nascondi il tuo dolore, le tue ansie, le tue paure. Mentre non riesci a ridere. Mentre al contrario di me stringi tra i denti ogni brandello della tua forza per combattere ed andare avanti. Non so quasi più niente di te. Hai smesso di raccontarti. Lo so cosa pensi. Io lo so cosa pensi anche se non me lo hai detto mai. O forse si, forse una volta ti è scappato. “Smetti di fare, dire e pensare cose che non ti appartengono. Queste cose non sono tue”. E se lo so è perché so che è vero. E so che è questo che ti fa male, che ti fa sentire in colpa. L’idea di avermi trainata, condizionata. Ma non è colpa tua. Quando uno è come me è una cosa normale. E’ normale prendersi le idee degli altri, le emozioni degli altri, le parole degli altri, fino a sentirle proprie. Quando uno è come me da solo non pensa. Si lascia trapassare da tutto quello che incontra senza mai domandarsene il senso il peso le conseguenze. E’ da qui che nascono i colori. E’ da qui che si muovono le mani. Finché non si “innamora”. Non entra in simbiosi con qualcuno che ha dentro i suoi colori, ma che è più forte di lui e li domina. Non si lascia invadere. E allora si trasforma e si dipinge la testa di sogni non suoi. Ovunque lo portino. Anche io ho finito per trainare te però. In posti dove forse non saresti mai stata o tornata. O dove non avrei mai voluto vederti andare. Ed ho fatto peggio. Non ti ho ascoltata. Non ho saputo starti vicina. Ogni volta che tu diventavi fragile, la tua luce si affievoliva, la tua pelle copriva i tuoi pensieri e intrappolava la tua energia, io tornavo in me. Nel niente. Tornavo quella della strada, dei colori, della vita, quella che non c’è niente da pensare, da dire, da discutere, da fare. Ma forse non sono stata io. Forse non sei perfetta come qualcosa di me ha voluto vederti. Forse sei invece quella che qualcosa di me ha riconosciuto ed amato. Insieme a quello che non sono.
Quando ti ho incontrata avevo una famiglia. Non che avessi chiaro il concetto di questa cosa, che quelli come me non sei fanno concetti, ma avevo una casa, un uomo, un figlio. E i miei colori. Rubavo a loro il mio spazio di volo e in un modo o nell’altro me lo lasciavano fare. Tante volte nel volo delle immagini strappate alla tela finivo lontana, tanto lontana da non sapere tornare. Da sognare di non dovere tornare. Ma tornavo sempre. Senza pensieri.
Ti ho incontrato in durante uno di questi voli. Durante una delle mie tante fughe. Anche tu stavi volando. Volando, sognando o fuggendo. Ma il tuo volo era altissimo. Pieno. E io ho ascoltato il tuo sogno. Che il giorno dopo era il mio. Senza averlo sognato e condiviso mai.
La prima volta che hai tentato di spiegarmi che tu non sogni ma ascolti, che tu non sogni ma osservi, e che ogni realtà va presa per quello che è, e vissuta per quello che è, ti ho dato ragione. Ho sempre vissuto così. Ma tu non eri come me. E io volevo già le cose che tu volevi per te, che avevi per te. In posti dove non c’erano. Ti odiavo quando mi buttavi in faccia la realtà delle mie fughe. Quando riassumevi fatti e parole dimostrandomi che stavo inventandomi una vita che non c’era. Odiavo che la tua ci fosse. Anche se ti feriva. “Perché per me dovrebbe essere diverso? Perché io non avrei diritto a queste cose?” “Perché parti da un posto diverso, perché chiedi cose diverse, perché sogni cose diverse, perché per non trovarle, non volendole, le cerchi dove sai che non ci sono. Stai giocando contro di te”. “E tu? Tu? Cosa stai trovando tu? Contro quali muri finiscono i tuoi desideri e quello che vuoi?” “ Io non voglio niente, non ne ho bisogno”. E il giorno dopo anche io non avevo bisogno. E invece ne avevo e tanto. E mi mancavano braccia e mani e colori e casa. Anche le tue di braccia. Che non mi hai abbracciato mai. Si, so che lo hai fatto. Non fisicamente. So come sei fatta. Ma io avrei voluto che lo facessi.
Quando hai conosciuto Flavio ed il suo amore e il tuo ti hanno cambiato il mondo, e la tua luce ha incendiato i cieli di notti senza luna, e la tua voce era la sua, i tuoi occhi i suoi, e insieme dipingevate un mondo vostro che era vero e pieno di colori che non avevo visto mai, colori che diventavano musica e poesia e canto, io ho chiesto, senza chiederlo e senza volerlo, che Andrea fosse il mio Flavio, che Dario fosse il mio Flavio, che lo fosse almeno Sergio. Ripetendo il tuo canto, piangendo le tue lacrime, dipingendo muri stinti e refrattari manipolando i miei colori per farli somigliare ai tuoi. E ho fatto peggio. Mentre tu crollavi io piuttosto che fermarmi e scendere dalla mia nuvola, per aiutarti, per aiutarmi, mentre tu crollavi e ancora cercarvi di ricondurmi a terra, io ho chiuso gli occhi e le mani e ho detto io il tuo sogno ce l’ho e me lo tengo. E ho disfatto il mio di mondo. Senza neanche che un Flavio ci fosse. Senza che ci fosse mai stato. Che mai per un attimo né Andrea, né Dario, né Sergio mi avessero dato una briciola di ciò che Flavio aveva dato a te. Senza che mai per un attimo né Andrea, né Dario, né Sergio fossero stati per me quello che Flavio era stato per te. Perché io non ero te.
Oggi a quaranta anni io sono sola. Quando corri tanto dietro un sogno che non è neanche il tuo non trovi più la strada per tornare indietro. E se la trovi in fondo trovi una porta chiusa. Anche mio figlio ha preferito fermarsi, non inseguirmi. Non mi ha giudicata. Mi conosce. Ma io non ho nulla da dargli. Neanche un posto dove stare. Perché quando tu mi urli contro mi urli di cercarmelo. Mi dici di smettere di sognare e darmi da fare. Come stai facendo tu. Con l’anima a pezzi. Che anche tu sei sola. Ma io non riesco a smettere. Continuo a stendere strati e strati di colore sul muro che Sergio mi ha sollevato avanti. Sul muro che c’è sempre stato. Su quel muro che forse, come dici tu, io cerco, so che c’è, perché non voglio che non ci sia.
Io so che anche tu da qualche parte sogni ancora. O come dici tu guardi, ascolti. Che non hai smesso. Ma hai i suoi colori e i tuoi e tutto quel vostro mondo dentro adesso e ancora che nessun muro che la vita vi ha costruito contro ti potrà togliere dagli occhi. E contro quel muro e da quel muro hai raccolto le briciole e la polvere per rialzarti, per combattere, per vivere, fosse anche solo per sognare ancora. Per guardare ed ascoltare ancora.
Forse anche adesso dovrei imitarti, provare a pensare come te. Soprattutto adesso. Forse è per questo che non mi parli, che non mi guardi, che mi urli contro. Ma io, che vivo di colori, quei colori che ti porti dentro non li ho visti mai. E i miei muri sono così pieni di vernice che non ci sono briciole nè polvere da raccogliere. O non so come farlo. Io ho solo le mie mani. E i colori negli occhi. Che si stanno spegnendo, come si spengono gli occhi buoni di un cane randagio.
Cinzia Craus