Intervista di Gian J. Morici

Mario Ravidà non è un quisque de populo, né uno dei tanti eroi della sesta giornata. È un poliziotto – oggi in quiescenza – che ha attraversato uno dei periodi più drammatici dello scorso secolo, vivendoli sul campo. La sua lunga intervista – che pubblicheremo a più puntate – mette a nudo quello che fu un sistema che diede luogo a depistaggi e fatti di sangue, ancora oggi avvolti nel mistero. Cui prodest?
Dopo anni in prima linea nella DIA di Catania, la sua testimonianza è certamente tra le più rilevanti. Ci parli della sua carriera…

Mi sono arruolato come agente e, attraverso concorsi interni, ho raggiunto il grado di Commissario prima di andare in pensione.
Nel corso della mia carriera, ho avuto modo di operare in diversi Uffici. Inizialmente, alla DIGOS di Napoli, presso la sezione Antiterrorismo, ho preso parte al contrasto al terrorismo tra la fine degli anni ’70 e il 1984. In quel periodo, ho partecipato alla scoperta di covi delle Brigate Rosse e a vari arresti.
Terminata l’emergenza terrorismo nel 1984, sono stato trasferito a Catania. Qui, ho fatto parte della Squadra Mobile fino al 1986. Successivamente, sono entrato a far parte della Criminalpol Sicilia Orientale e, nel 1993, sono stato trasferito presso la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) di Catania, dove sono rimasto fino al mio pensionamento, avvenuto nel settembre del 2011.
Ho avuto modo di vivere in prima persona sia il periodo del terrorismo, sia il successivo e intenso contrasto alle organizzazioni criminali di stampo mafioso, inclusi gli anni caratterizzati dalla strategia stragista.
Ci sono episodi da lei vissuti, che potrebbe citare, e che a suo avviso sono verosimilmente riconducibili a probabili depistaggi?
Gli episodi che potrei citare, e che verosimilmente sono riferibili a probabili depistaggi sono tanti, ma mi limito a citarne solo tre:
Nel 1992, con il grado di Vice Ispettore in forze alla Criminalpol di Catania, fui inviato in missione a Palermo.
Arrivammo il giorno dopo l’attentato al Giudice Borsellino (il 20 luglio 1992), nel quale persero la vita il Magistrato e i cinque colleghi della sua scorta.
Avevamo un briefing fissato per le ore 10:00 presso la Criminalpol di Palermo per l’assegnazione dei compiti. A noi, del gruppo di Catania, fu ordinato dal Dirigente dell’epoca – il dottor Di Costanzo, ora deceduto – di recarci in via D’Amelio e cercare di individuare possibili testimoni.
Giunti sul posto, io e il mio collega Francesco Arena (mentre il terzo collega, il compianto Antonio Carambia, si diresse verso i palazzi circostanti via D’Amelio per sentire eventuali testimoni), ci rendemmo immediatamente conto che l’esplosione era stata innescata tramite un telecomando azionato a distanza.
Dopo aver escluso eventuiali ipotesi iniziali, quale zona o struttura attirò la vostra attenzione come potenziale punto di osservazione o copertura?
Escludemmo subito che gli attentatori avessero potuto trovare un nascondiglio nelle immediate vicinanze del luogo della deflagrazione, poiché la potenza dello scoppio era stata tale da rischiare di coinvolgerli. Allo stesso modo escludemmo i palazzi circostanti, in quanto tutti abitati e con il rischio che potessero essere notati.
Attrasse la nostra attenzione un palazzo in costruzione situato dietro un giardino che chiudeva via D’Amelio, essendo questa una strada a fondo cieco. Il palazzo era strutturalmente definito ma ancora in fase di completamento.
Facemmo il giro di via D’Amelio e raggiungemmo l’edificio, che era delimitato dalle classiche lamiere poste a protezione dell’ingresso del cantiere. Premetto che era domenica e logicamente non ci aspettavamo di trovare operai o altre persone.
Invece, la porticina d’ingresso di dette lamiere era leggermente aperta, e quindi entrammo. Arena ricorda che all’interno vi era parcheggiata una Mercedes; io non ho memoria dell’auto. Salimmo le scale del palazzo, che non erano ancora ultimate.
Mentre salivamo i diversi piani del palazzo (credo cinque o sei), incontrammo una persona che stava scendendo. La fermammo e, dopo esserci presentati, chiedemmo chi fosse, cosa ci facesse in quel posto e se fosse da solo o in compagnia di altri.
Ci rispose che era uno dei costruttori del palazzo, si chiamava Graziano, e che all’ultimo piano c’era suo fratello in un appartamento utilizzato come punto vendita.
Lo invitammo a salire e raggiungemmo il piano che ci aveva indicato, dove trovammo anche il fratello. Chiedemmo i documenti e identificammo i due come i fratelli Graziano (non ricordo i nomi di battesimo).
Nell’ufficio vendita erano posizionati una scrivania e un telefono fisso. Arena chiese di poter telefonare, poiché all’epoca i cellulari non erano diffusi, e chiamò la centrale operativa del 113 per fornire i nominativi dei Graziano e richiedere un controllo al terminale elettronico.
Mentre il suo collega Arena attendeva risposte, notò qualcosa di particolare rispetto la scena dell’attentato? Chi erano i fratelli Graziano?

Mentre Arena attendeva la risposta, io mi affacciai alla terrazza, da dove notai che la visuale su via D’Amelio era perfetta. Ci trovavamo a non più di cento metri in linea d’aria dal luogo dell’attentato. Da lì si vedeva tutta via D’Amelio, dall’ingresso fino alla delimitazione del giardino che, come detto, chiudeva la strada a fondo cieco.
Notai, inoltre, una grossa lastra di vetro molto spessa, ma non blindata, che io definivo ‘scudata’. La lastra era crepata — ritengo a causa dello spostamento d’aria provocato dall’esplosione nella vicina via D’Amelio — ma non rotta. Ai suoi piedi vi erano molte cicche di sigarette raccolte, come se qualcuno fosse stato lì a lungo a fumare.
Arena mi raggiunse, tenendo in mano i documenti dei due Graziano, e mi riferì che uno o entrambi (non ricordo esattamente) avevano numerosi precedenti penali, inclusa l’associazione mafiosa. Mi informò anche che la centrale operativa del 113 gli aveva chiesto la nostra esatta posizione, aggiungendo che stavano inviando altro personale in supporto.
In attesa dei colleghi, io e Arena rilevammo i numeri dei cellulari in uso a entrambi i fratelli Graziano, poiché, sebbene non ancora diffusi, i due ne erano in possesso.
Cosa accadde dopo?
Ci stavamo apprestando a scendere dal palazzo per attendere l’arrivo dei colleghi, quando li incontrammo sulle scale che stavano salendo.
Si trattava di colleghi della Criminalpol di Palermo che conoscevamo di vista, tra cui una donna. Essendo noi aggregati, ci dissero che avrebbero continuato loro i controlli e che avrebbero eventualmente richiesto l’intervento della Polizia Scientifica per i rilievi.
Io e Arena, recuperato il collega Carambia, ci dirigemmo quindi verso gli Uffici della Criminalpol, dove stilammo una dettagliata relazione su quanto avevamo visto e fatto, includendo anche i numeri di telefono dei Graziano, e la consegnammo al Dirigente, Dott. Di Costanzo.
Stranamente, il giorno dopo non ci furono date ulteriori disposizioni e ci ordinarono di rientrare a Catania. Ho definito la cosa “strana” poiché in ogni missione o aggregazione fuori sede, la durata non era mai inferiore a quindici giorni e, talvolta, poteva durare mesi. Per quell’occasione, data la gravità dei fatti occorsi, avevamo previsto una lunga aggregazione.
Aspettammo i funerali dei colleghi e poi rientrammo a Catania.
Dopo aver redatto la relazione, cosa accadde alla vostra indagine successivamente? Lei e il suo collega Arena siete stati chiamati a testimoniare, perché?

Per circa un decennio o più, non sapemmo più nulla della nostra relazione, né delle eventuali indagini che credevamo fossero state espletate.
Successivamente, io e Arena fummo chiamati a testimoniare nel processo a carico del Generale Mario Mori e del Colonnello Mauro Obinu, accusati di aver favorito “Cosa Nostra” in relazione alla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso.
La nostra convocazione derivava dal fatto che, in precedenza, sia io che Arena eravamo stati impegnati a coadiuvare nelle indagini a Catania il Colonnello Michele Riccio, finché questi era rimasto in DIA.
Avevamo stabilito una sintonia operativa con Riccio riguardo a quanto era accaduto nel caso Ilardo e, in particolare, alla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso. Nonostante Riccio non fosse più in DIA, mantenevamo un rapporto amichevole, anche perché stavamo conducendo un’indagine su Cosa Nostra catanese, che all’epoca era retta da Aurelio Quattroluni.
L’indagine aveva preso avvio proprio dalle confidenze che Ilardo aveva fornito a Riccio e, pertanto, al sorgere di nuove necessità, avevamo bisogno di dettagli che solo Riccio poteva fornirci tramite il suo infiltrato, Ilardo.
Cosa ne fu della vicenda legata al palazzo dei Graziano; ci furono ulteriori sviluppi?
Durante questa testimonianza a Palermo, fummo avvicinati dal giornalista Nicola Biondo, che ci chiese notizie sui fatti di nostra conoscenza.
Parlando, emerse la storia del palazzo dei Graziano, poiché credevamo che fossero state svolte indagini su quanto avevamo riferito nella nostra relazione. Biondo si dimostrò molto sorpreso da questo fatto e, essendo di Palermo e a conoscenza di tutte le indagini svolte sulla strage, ci informò che nessuno sapeva nulla di quel palazzo.
La cosa ci sorprese, ma per noi era finita lì.
Evidentemente, Biondo parlò successivamente di questo fatto con i Magistrati di Caltanissetta, e fummo quindi chiamati a testimoniare sui fatti da noi conosciuti.
Ancora dopo, durante il processo “Borsellino quater”, fummo chiamati nuovamente a testimoniare su questi avvenimenti in aula. In quella sede, apprendemmo che della nostra relazione non vi era traccia nel fascicolo delle indagini.
Apprendemmo anche che, durante le fasi immediatamente successive all’attentato a Borsellino, era stata registrata una telefonata anonima al 113 che segnalava strani movimenti di persone proprio in quella terrazza del palazzo dei Graziano.
Circa ventotto anni dopo la strage, Nicola Biondo mi contattò nuovamente per un’intervista con un’emittente televisiva nazionale, che tuttavia non è mai andata in onda.
In quel contesto, Nicola Biondo affermava che i Graziano erano i costruttori di quel palazzo (scomparso dalle indagini) e che erano vicini alla famiglia mafiosa dei Madonia di Palermo. Quest’ultima, successivamente, fu inquisita e credo anche condannata proprio per la strage, dopo i fatti relativi al depistaggio di Vincenzo Scarantino.
Sempre in quella intervista, Biondo affermò che i costruttori Graziano erano anche in contatto con il Dottor Bruno Contrada, al quale avevano fornito in uso alcuni appartamenti.
Cosa ne fu dei telefonini?
Il rammarico legato a questo episodio è che, se si fossero sviluppati subito i contatti telefonici che i Graziano avevano avuto tramite i loro cellulari al momento della strage, forse oggi ne sapremmo di più.
Tale accertamento non è stato possibile farlo nell’immediatezza della strage, a causa della scomparsa della nostra relazione di servizio. Successivamente, essendo trascorsi più di dieci anni — il periodo durante il quale i gestori hanno l’obbligo di conservare i tabulati cellulari — questi dati sono andati distrutti.
Infine, ho letto che recentemente sono state eseguite triangolazioni tecniche su quella terrazza, e quel luogo risulterebbe essere il vero punto da cui fu azionato il telecomando che innescò l’esplosione in via D’Amelio. Stranamente, ancora oggi, nessuno parla di quel luogo e dei Graziano.
In tempi recenti, ho fornito un’ulteriore testimonianza su questi fatti relativi al palazzo, su richiesta dell’Avvocato Fabio Repici, nel processo sui depistaggi che si sta tenendo a Caltanissetta.
Segue…