Nino Di Matteo verrà reintegrato nel pool stragi dal quale era stato espulso dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, a seguito di un’intervista rilasciata dall’allora sostituto della Dna sui mandanti occulti degli attentati del 1992. Di Matteo secondo il procuratore nazionale antimafia aveva anticipato temi di indagine tradendo la fiducia del suo gruppo di lavoro e delle procure distrettuali impegnate nelle inchieste. Un’accusa dalla quale Nino Di Matteo si era difeso sostenendo di aver parlato soltanto di questioni già note da tempo.
A revocare il provvedimento è stato lo stesso Cafiero De Raho che ne ha informato il Consiglio superiore della magistratura – del quale lo stesso Di Matteo fa parte – con la motivazione di voler evitare “aggravi procedurali e decisionali in un momento particolarmente delicato per la svolgimento delle funzioni e l’immagine della magistratura”.
Una decisione che certamente lascerà perplessi molti di coloro i quali hanno seguito le fasi del processo che a Caltanissetta ha portato alla condanna di Matteo Messina Denaro, ritenuto tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una sentenza che rappresenta il punto di partenza di nuove indagini volte a individuare i mandanti esterni delle stragi e a far luce sui depistaggi avvenuti sia prima che dopo gli attentati.
“Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci dopo la sentenza – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”
Nel corso del processo sono emersi elementi che indicherebbero nell’intreccio mafia e appalti – l’indagine voluta da Giovanni Falcone e che Paolo Borsellino avrebbe voluto continuare – le ragioni che portarono all’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio. Un’ipotesi contrapposta a quella della trattativa Stato-mafia da sempre cara a Di Matteo.
Il “cittadino di cento città” – come amava definirlo il compianto avvocato Mauro Mellini a seguito delle numerose cittadinanze onorarie conferite al “più scortato” dei magistrati italiani – dopo la sua deposizione al processo di Caltanissetta aveva suscitato la rabbia di Fiammetta Borsellino che aveva stigmatizzato le difficoltà degli allora pm di Caltanissetta (Annamaria Palma, Carmelo Petralia e lo stesso Di Matteo) che si erano occupati della strage di via D’Amelio, a far emergere la verità.
Annamaria Palma e Carmelo Petralia, i due magistrati che insieme a Di Matteo facevano parte del pool che coordinò l’indagine sull’attentato al giudice Paolo Borsellino, erano stati accusati in concorso con i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo di aver depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio per aver indotto dei falsi pentiti – tra i quali Vincenzo Scarantino – ad accusare dell’attentato persone innocenti.
False accuse che portarono alla condanna all’ergastolo di persone estranee all’attentato, smontate successivamente dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Una collaborazione, quella di Gaspare Spatuzza che nel portare alla revisione del processo a carico di undici persone ingiustamente condannate ha permesso di far luce su molti punti oscuri delle stragi e dei depistaggi messi in atto per coprire le responsabilità dei veri autori.
All’epoca Spatuzza, secondo Di Matteo, non avrebbe dovuto usufruire del piano provvisorio di protezione, sia perché questo avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili. Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Nel dubbio, quindi, Spatuzza non doveva usufruire del piano provvisorio di protezione, perchè ciò poteva portare l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità degli stessi, accertate con sentenze irrevocabili, potessero essere state affidate a falsi pentiti protetti dallo Stato. Una verità scottante emersa e consacrata dalle successive sentenze: ci si era avvalsi di falsi pentiti protetti dallo Stato!
Dal recente processo che ha portato alla condanna di Matteo Messina Denaro, sembra emergere un depistaggio ancora più grave di quello messo in atto a suo tempo da Scarantino. Un depistaggio non avvenuto a stragi compiute per coprire i responsabili degli attentati, bensì quello operato precedentemente alle stesse distogliendo le attenzioni degli inquirenti da chi in quel periodo le stava organizzando.
Non resta che sperare che non avvengano nuovi “miracoli” e che i depistaggi ante-stragi non vengano attribuiti allo spirito santo…
Gian J. Morici
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