Le sentenze non si discutono, si accettano, si subiscono, ci si oppone. Non ci soffermeremo pertanto sulla sentenza di condanna emessa ieri dal tribunale di Marsala nei confronti dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, così come su quelle emesse a Palermo in capo al colonnello della Dia Marco Alfio Zappalà e all’appuntato scelto Giuseppe Barcellona, seppure i comune con la storia di oggi hanno le indagini che riguardano Matteo Messina Denaro, la violazione del segreto d’ufficio e – nel caso di Vaccarino – l’aggravante dell’articolo 7, ovvero di aver agevolato la mafia, ostacolando la Dda di Palermo in merito alle attività d’indagine che riguardano il boss latitante.
Non conosciamo infatti ancora le motivazioni delle sentenze e dunque non entriamo nel merito. Quella odierna è un’altra storia che riguarda la caccia al boss latitante Matteo Messina Denaro e le vicende giudiziarie che hanno visto coinvolti i cacciatori: due magistrati e un appuntato della Guardia di Finanza.
Marcello Viola, ex capo della procura di Trapani e Maria Teresa Principato, ex procuratore aggiunto di Palermo, erano accusati di rivelazione del segreto d’ufficio, indagati inizialmente con l’aggravante dell’articolo 7, per aver agevolato la mafia, ostacolando le indagini della Dda di Palermo.
Due magistrati accusati di aver favorito “cosa nostra”. Al solo leggere cosa sia l’aggravante dell’articolo 7 c’è da farsi accapponare la pelle, tanto più se quell’aggravante viene contestata a due magistrati che di Matteo Messina Denaro si interessavano. Cosa avevano fatto Viola e Principato? Accusati di violazione di segreto d’ufficio e con l’aggravante di aver agevolato la mafia, è più che legittimo pensare che avessero utilizzato le informazioni in loro possesso affinché il latitante potesse sfuggire alla cattura. E invece no, si trattava soltanto di uno scambio di informazioni tra due magistrati che, come sostenuto dalla procura di Caltanissetta che aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine, era “processualmente accertato un continuo rapporto di collaborazione e di scambio di atti tra le Autorità Giudiziarie di Trapani e Palermo”.
È l’aggravante? Forse ci stava un po’ come il prezzemolo, ovvero ciò che trovi ovunque, ma che non ha certo lo stesso significato del prezzemolo delle ricette di cucina, dove serve a dare gusto a tantissime pietanze. I due magistrati vennero successivamente assolti. Non soltanto venne meno l’aggravante del prezzemolo che insaporiva quella che non era una ricetta culinaria, ma anche l’accusa della violazione del segreto d’ufficio. Non sappiamo quali conseguenze abbia avuto quell’indagine sulla carriera dei due magistrati, ma per certo possiamo dire che se soltanto uno di loro avesse avuto la malaugurata velleità di ambire alla carica più importante di una procura come quella panormita o quella Nissena, la sua corsa momentaneamente si sarebbe fermata lì.
E di Viola, ben sappiamo come anche la corsa a capo della procura capitolina si sia arrestata dinanzi ai “magheggi” del cosiddetto “caso Palamara”, quello dal quale si evince come quel magistrato che era stato definito dal pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, “l’unico che non è ricattabile”, e che sembrava essere destinato al vertice della procura romana, fu il grande escluso, non avendo ottenuto al Csm neppure un voto dopo averne presi prima ben quattro contro il singolo voto attribuito agli altri due candidati.
Strano? Eppure è così. Le chat di Palamara son piene di nomi di magistrati, dal Nord al profondo Sud. Quel Sud che confina tramite il mare con il Nord dell’Africa o che esso stesso non è il Sud del nostro Paese, bensì l’estremo Nord del Nordafrica. Accordi per le nomine di magistrati, incontri, storie pruriginose delle quali non vogliamo neppure interessarci, sembravano svanire dinanzi il nome di Viola, dato in pasto alla stampa senza che ci fosse neppure una sua intercettazione, nonostante il Csm abbia ammesso il suo mancato coinvolgimento rispetto al procedimento di Perugia, ritenendolo inoltre parte offesa e nonostante sul suo conto neppure altri avessero fatto alcuna illazione. Misteri della Fede? No, misteri di un sistema Giustizia che oggi manifesta tutte le sue angoscianti criticità.
Torniamo però al processo ai due magistrati, nel quale era imputato anche Calogero Pulici, appuntato della Guardia di Finanza (all’epoca assistente della Principato) assolto poi per ben sette volte dalle accuse che gli erano state mosse.
Tra le accuse contestate, anche quella di aver consegnato a Viola, nell’ottobre 2015, una pen drive contenente i verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia, coperti da segreto investigativo.
Il finanziere, a seguito delle indagini a cui venne sottoposto, fu allontanato dalla Procura, poiché per i vertici dell’ufficio giudiziario era venuto meno il rapporto di fiducia.
L’11 dicembre 2015, dopo aver chiesto e ottenuto preventiva autorizzazione, Pulici si recava presso gli uffici della Procura, nella stanza della dottoressa Principato, con la quale aveva lavorato per quanto riguardava la caccia a Matteo Messina Denaro, per ritirare i suoi effetti personali. In particolare un pc portatile e due chiavette. Veniva dunque prelevata dalla libreria la scatola contenente il pc.
Non fu poca la sorpresa, quando nell’aprire la scatola alla presenza dell’assistente del magistrato, i due scoprirono che era vuota. Ma non mancava soltanto il pc. Anche un mazzo di chiavi legate con un anello metallico al quale erano attaccate due pendrive erano state portate via dall’ufficio. Cosa contenevano il pc e le due chiavette?
All’interno c’erano tutti i file delle attività di indagini svolte dall’ufficio e coperte da segreto istruttorio. Cosa ci fosse in merito alle indagini che riguardavano Matteo Messina Denaro non lo sappiamo, ma è certo il fatto che era indispensabile verificare se quanto mancante fosse stato prelevato e conservato dal responsabile del settore informatico o se ignoti lo avessero portato via per ragioni da scoprire.
Accertato che il responsabile del settore informatico non sapeva nulla del pc, né delle due chiavette scomparse, il finanziere, lo stesso giorno, tramite una relazione di servizio informò immediatamente il comando provinciale, nella persona del suo comandante, di ciò che era successo. Era molto grave, infatti, che all’interno degli uffici di una procura qualcuno potesse essersi impossessato di atti di indagini che riguardavano l’ultimo grande latitante, quel Matteo Messina Denaro, oggi imputato a Caltanissetta per aver concorso nell’organizzare le stragi del ‘92 nelle quali morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie del primo e i componenti delle rispettive scorte.
Atti di indagine che riguardavano uno dei più sanguinari mafiosi che aveva contribuito a esportare anche in altre città del nord la strategia terroristico mafiosa di “cosa nostra”. Era indispensabile dunque recuperare quel materiale e individuale chi lo aveva sottratto e per quale criminale scopo.
Sono trascorsi 5 anni da quella relazione di servizio e per quanto dato di sapere non ci fu alcuna indagine. Nessuno si interessò di sapere quale ignota mano avesse portato via quel materiale investigativo, nessuno sì interesso di sapere in quali mani forse finito quel materiale.
Oggi, che qualsiasi cosa si fa risalire a indagini anche datate di oltre 10 anni, pur di poterle condire con quel prezzemolino dell’articolo 7, che sembra diventato un ingrediente indispensabile anche al di fuori dell’arte culinaria, su alcune vicende quali la scomparsa di atti di indagine o l’archiviazione di importanti indagini nelle quali avevano creduto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quali il dossier mafia-appalti, al quale lavorarono il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, ufficiali dei carabinieri che godevano della massima stima e della massima fiducia da parte dei due magistrati vittime di “cosa nostra” – e forse non soltanto di quella – sembra essere sceso il silenzio.
Un silenzio del quale narreremo con i prossimi articoli a partire da alcuni particolari inediti di queste indagini che videro due magistrati e un appuntato della Guardia di Finanza trasformati da cacciatori in prede.
Gian J. Morici
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