Continua a far “audience”(purtroppo di questo si tratta) il verdetto della Corte d’Assise di Palermo che vede condannati uomini delle istituzioni e mafiosi per quella che è stata definita “trattativa Stato-mafia”, sulla quale si è a lungo dibattuto in merito alla sua stessa esistenza.
La sentenza di primo grado, sembrerebbe dover chiarire quantomeno questo aspetto, visto che per i magistrati – e per buona parte della cosiddetta “opinione pubblica”, che difficilmente è capace di formarsi una propria autonoma opinione fondata su dati oggettivi – la trattativa ci fu. Tant’è, che dopo oltre cinque anni di processo, si è arrivati alla sentenza di condanna degli imputati: Dodici anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, dodici anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno, 28 anni per il boss Leoluca Bagarella.
Chi si aspettasse di leggere una “condanna per trattativa” rimarrebbe deluso, visto che il reato di “trattativa” non esiste e ben lo sanno i giudici che – correttamente, almeno in questo – hanno rubricato il reato come “minaccia a un corpo politico dello Stato”. Una minaccia la cui responsabilità, quantomeno in concorso, è stata attribuita agli ufficiali del Ros per il periodo 1992-1993; a Dell’Utri, per il 1994, ovvero durante il periodo del governo Berlusconi.
Secondo i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, nel 92/93, gli uomini del Ros avrebbero trattato con i vertici di “cosa nostra”, con la finalità dichiarata di bloccare le stragi, finendo però con il trasformarsi in latori delle richieste della mafia. Il famigerato “Papello” che sarebbe stato alla base dell’accordo per porre fine alla cosiddetta “stagione stragista” in cambio di una serie di favori resi alla mafia, come l’abolizione del regime di carcere duro, previsto dall’articolo 41bis, la scarcerazione di alcuni mafiosi, l’abolizione della legge sui pentiti etc.
Favori – è bene ricordarlo – mai resi. Così come è doveroso ricordare che l’esistenza stessa del “Papello”, o comunque la veridicità di quello presentato da Massimo Ciancimino, è stata oggetto di non pochi e controversi dibattiti. Tanto che la sentenza del 17 luglio 2013, nell’escludere patti o accordi per la mancata cattura del boss corleonese, ne adombrava la veridicità, poiché il Ciancimino stesso era stato segnalato alla procura – dallo stesso tribunale – per falsa testimonianza.
Un secondo “Contropapello”, ovvero una revisione del primo documento, con pretese più “accettabili”, scritto da Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo – consegnato anche questo da Massimo Ciancimino – avrebbe riportato l’indicazione di due nomi. Quelli di Mancino e Rognoni. Mancino, imputato nel cosiddetto processo “Trattiva” per il solo reato di falsa testimonianza, è stato assolto perché il fatto non sussiste.
Gli ex ufficiali del Ros, secondo la sentenza che ha visto i giudici accogliere la ricostruzione dei pubblici ministeri, avrebbero trattato con “cosa nostra” facendosi portatori delle richieste dei mafiosi ai governi in carica. Un’attività che (a prescindere dalle ragioni, dal fatto che non si sarebbe comunque concretizzata nell’accettazione delle richieste, e dai risultati conseguiti dai carabinieri, oggi condannati, ai quali si deve l’arresto di numerosi latitanti pericolosi) avrebbe finito con il configurare il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato, come previsto dal nostro ordinamento giuridico per chiunque usi violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio, per impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente o per turbarne comunque l’attività.
Da profano, in attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza, mi sorge spontanea qualche domanda. Mentre mi è più chiara la posizione di Dell’Utri riferita al 1994, che si sarebbe fatto latore delle minacce verso il governo Berlusconi; i carabinieri condannati, nel ‘92/’93, a chi avrebbero consegnato le minacce dei mafiosi? Dalle notizie stampa, dal dibattimento in aula e dal dispositivo della sentenza, non si evince alcun nome di soggetti appartenenti ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Gli unici soggetti che avrebbero potuto essere i destinatari, stando al “Contropapello”, erano Rognoni e Mancino. Mancino, che come dichiarato dallo stesso Massimo Ciancimino “quando si voleva aprire un canale per la trattativa era stato fatto il nome suo e di un altro ministro. Che poi mio padre non trovò in Mancino l’interlocutore che voleva…” (assolto inoltre anche dall’accusa di falsa testimonianza –ndr); Rognoni che nell’estate del ’92 non era più nel governo e che quando sentì Martelli che parlava al tg dopo il suo interrogatorio davanti ai pm di Palermo, affermando che non era stata una vera trattativa ma soltanto “contatti”, ebbe a dire: “Bene, trattativa o contatti che fossero io non sono mai venuto a conoscenza di queste cose.”
Dunque? Si potrebbe anche ipotizzare che possa restare ignoto il soggetto nelle cui mani fu consegnata la minaccia di “cosa nostra”, facendo rientrare la vicenda nei cosiddetti reati senza vittima (così come nel caso della detenzione o il porto abusivo di armi, laddove il bene giuridico tutelato non è ascrivibile a nessun oggetto in particolare) se non fosse per un aspetto che nel caso in specie fa la differenza.
Cosa si intende per corpo politico, amministrativo o giudiziario? Per rispondere a questa domanda, tra le tante altre risposte, ho scelto quella della sentenza della Cassazione penale sez. VI 05 aprile 2012 n. 18194, che così recita: “Non integra il reato di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 338 c.p.), la condotta di colui che indirizzi la minaccia ad un assessore comunale, in quanto quest’ultimo non è organo collegiale, né ha una sua rappresentanza, nel senso che non gli è attribuito il potere di agire in nome e per conto del collegio; infatti, agli effetti della previsione di cui all’art. 338 c.p. per “corpo politico, amministrativo o giudiziario” deve intendersi una autorità collegiale che eserciti una delle funzioni ivi indicate, in modo da esprimere una volontà unica tradotta in atti che siano riferibili al collegio e non ai singoli componenti che alla formazione di tale volontà concorrano.”
Chi era dunque il soggetto, e di quale organo collegiale era componente, a cui venne consegnato il “Papello” o il “Contropapello” o, ancora, una qualsiasi altra forma di minaccia? Certamente, nel periodo per il quale sono accusati i Ros (’92/’93) non Silvio Berlusconi che non rivestiva alcun ruolo politico e pertanto non si sarebbe potuto configurare il reato di minaccia a corpo politico dello Stato. Quindi? Sarà interessante leggere le motivazioni della sentenza per capire come si sia arrivati alla condanna in assenza della figura grazie alla quale si sarebbe potuto incardinare il processo.
Se Di Matteo afferma che in passato si era messa in correlazione “cosa nostra” con la figura di Berlusconi come imprenditore, mentre con questa sentenza, per la prima volta, l’organizzazione mafiosa viene messa in correlazione con Berlusconi uomo politico, la stessa affermazione non può farsi per gli ex ufficiali del Ros accusati di aver interagito con “cosa nostra” senza che si sappia con chi Senza la precisa indicazione di chi avrebbe ricevuto il “papello“, si può infatti affermare che lo sconosciuto soggetto avesse le caratteristiche per essere componente di un organo collegiale di un corpo politico, amministrativo o giudiziario?
La prima trattativa, condotta secondo l’accusa dai carabinieri, sarebbe stata quella avviata con Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, che avrebbe consegnato il “Papello” con le richieste di Totò Riina. Una circostanza negata dagli imputati. Dall’inchiesta è emerso che dopo la strage di Capaci, l’allora capitano De Donno avrebbe chiesto una copertura politica per incontrare Vito Ciancimino. Richiesta che sarebbe stata fatta al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, la quale, oltre a rimandare De Donno ai magistrati di Palermo, ne parlò con il Giudice Paolo Borsellino che le rispose che ci avrebbe pensato lui.
Cosa intendeva dire il Giudice Borsellino? E perché dopo quanto riferitogli dalla Ferraro il 28 giugno, l’allora maresciallo Canale, il 4 luglio, disse al Giudice Camassa che Borsellino a suo avviso si fidava troppo dei vertici del Ros? Se realmente la richiesta dell’allora capitano De Donno al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia, avesse rappresentato qualcosa di così grave, Borsellino avrebbe continuato a fidarsi del Ros?
La seconda trattativa sarebbe invece quella avviata dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, quando, secondo l’accusa, Marcello Dell’Utri si farebbe fatto latore del messaggio di “cosa nostra” recapitandolo a Silvio Berlusconi e convincendo quest’ultimo, nel ’94, a intraprendere iniziative legislative che se fossero state approvate avrebbero favorito l’organizzazione mafiosa e avrebbero attenuato le condizioni del regime di 41bis.
Mentre nell’ottobre del 1993 Berlusconi era solo il fondatore – insieme a Dell’Utri – di Forza Italia, il 14 marzo del 1994 viene eletto alla Camera dei Deputati e il 10 maggio dello stesso anno, è Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.
Solo in questo caso – a differenza di quanto avvenuto con i carabinieri del Ros – si sarebbe potuto consumare il reato di minaccia a un “Corpo politico dello Stato”, avendo individuato l’autore dell’illecito (cosa nostra), il latore della minaccia (Dell’Utri) il destinatario (Berlusconi) nella cui figura si poteva racchiudere la definizione della sentenza di Cassazione succitata, laddove recita: per “corpo politico, amministrativo o giudiziario” deve intendersi una autorità collegiale che eserciti una delle funzioni ivi indicate, in modo da esprimere una volontà unica tradotta in atti che siano riferibili al collegio e non ai singoli componenti che alla formazione di tale volontà concorrano.”
Ma queste sono soltanto le considerazioni di un profano…
Gian J. Morici
Istintivamente non posso che espimere meraviglia per una sentenza che condanna ex Ufficiali dei Carabinieri che dovrebbero aver agito di iniziativa per uno scopo ignoto non rivelando altri motivi che avrebbero spinto i due ad agire sicuramente per disposizioni arrivate dall’altro. Non credo che la sentenza possa rappresentare un momento giuridico rilevante, piuttosto un cattivo esempio di applicazione del diritto.
Un’analisi perfetta quella sviluppata nell’articolo che dovrebbe spingere a meditare.