Un caso emblematico del carattere sciagurato assunto oramai dall’Antimafia (con le sue derivazioni indiscutibilmente mafiose, devastanti l’economia non solo siciliana), ha “bucato” il silenzio della stampa, ma non ha provocato la minima reazione della classe politica.
E’ il “caso Niceta”: l’efferata distruzione di una delle “storiche” imprese commerciali palermitane, mandata in rovina con le cosiddette “misure di prevenzione”.
Dire che il caso ha “bucato” il silenzio della stampa è, peraltro, una ottimistica esagerazione. Ne abbiamo notizia per un servizio di Salvatore Parlagreco sul sito “Sicilianinformazioni.com”. Giornali e riviste siciliane e non tacciono su questo caso e, quel che è peggio, sulla questione delle “misure di c.d. prevenzione” e sui loro effetti letali, discettando, al più, su problemi marginali e sulle solite proposte di un’amministrazione “socialmente utile” e meglio organizzata dei beni oggetto delle disinvolte depredazioni giudiziarie.
Neppure il “caso Saguto”, che ha messo a nudo una immonda trafila mafiosa (proprio così: la mafia dell’antimafia) di cui è stata frettolosamente circoscritta la portata, ha indotto stampa e classe politica ad affrontare il vero nocciolo della questione, di cui le ruberie familiari e le incrostazioni parassitarie varie sono il corollario, ha rotto il silenzio fatto di complicità e di paura (non è questa mafia?) sulla “punizione” dell’”indizio di mafia” con la pena dell’esproprio e della distruzione dei beni.
I Niceta, Mario, padre, ed i figli Massimo, Olimpia, Piero, sono stati fatti oggetto di un processo penale per il reato di mafia. Ne sono usciti assolti. Ma la stessa giustizia, si fa per dire, che li ha dichiarati non mafiosi, li perseguita come indiziati di essere tali, con le c.d. “misure di prevenzione”.
Queste dovrebbero, quindi impedire che chi mafioso non è e non è stato, mafioso diventi (questo dovrebbe essere il senso della “prevenzione”). Ma la “prevenzione” si realizza, oltre che in misure limitative della libertà personale, essenzialmente con la depredazione dei patrimoni, sul patrimonio esistenti e, quindi, realizzati in precedenza quando la stessa giustizia (tale per modo di dire) ha accertato che l’”indiziato” non era mafioso. Acquisito, dunque, legittimamente.
Questa catena di sciocchezze porta ad una sola conclusione: che oltre ad aver inventato il ruolo di “concorso esterno ad associazione mafiosa” è stato creato anche un altro reato, quello di essere indiziato di essere mafioso. Reato punito con la confisca dei beni. E poiché di ogni reato si può essere sospettati o, per non offendere troppo vistosamente la pudicizia dei popoli civili, “indiziati”, così si può essere indiziati di indizio di mafiosità. Cosa che comporta una pena non da poco: quella del sequestro, in attesa dell’accertamento definitivo che il loro proprietario sia davvero indiziato e non solo sospettato di esserlo, dei beni del presunto colpevole di indizio. Sequestro che non dovrebbe comportare necessariamente, l’esproprio dei beni. Ma che, trattandosi di aziende commerciali o industriali, comporta quasi sempre la loro distruzione, la cessazione dell’attività, il licenziamento dei dipendenti, la dispersione della clientela. E ciò non solo nei casi in cui la curatela del compendio sequestrato sia affidato a personaggi del tipo della figliolanza della Presidente Saguto, ma per il solo fatto della notizia, del sequestro, delle carenze di tutela dei diritti dei terzi etc. etc.
E’ questo il caso della Famiglia Niceta, inutilmente assolta dal reato di mafia, la cui catena di ben quindici negozi di abbigliamento ha chiuso i battenti. Ciò mentre il Tribunale Sez. delle misure di prevenzione, benché non più presieduto dalla dott. Saguto, prosegue alacremente all’opera di smantellamento, mandando per le lunghe il procedimento e quindi, il sequestro. Una perizia sul valore dei beni (c’è un sottile senso di sadismo in questo “accertamento” da parte di chi quei beni li ha massacrati!!!) che, malgrado la scadenza di tutti i termini (dal 2014!!!) ripetutamente prorogati, costituisce il pretesto per dar tempo alla più completa distruzione dell’Azienda.
Ai membri della Famiglia Niceta è stato negato dal Tribunale anche un assegno alimentare e ciò benché tra i beni sequestrati almeno una buona parte dovesse considerarsi necessariamente legittimamente pervenuta ad essi per successione ereditaria, dato che da più generazioni, sono i Niceta che si dedicano a tale attività commerciale. Si direbbe che, oltre alla distruzione del loro patrimonio si voglia il loro annichilimento personale e fisico. Sono rei di essersi fatti assolvere dall’imputazione di mafia.
Quel “caso Niceta” può essere considerato emblematico dell’assurdità e dell’efficacia catastrofica della legislazione antimafia. Ma non è detto che ancor più accuratamente ignorati, esistano altri casi, se non più scandalosi, più gravi e rovinosi.
Tempo fa, parlando di queste cose in Sicilia, mi accadde di dire che se oggi vi fosse ancora in piedi l’impero economico dei Florio, l’imprenditore fattosi siciliano, che, dopo l’Unità segnò una pagina di risveglio e di floridezza nell’economia dell’Isola, probabilmente lo avrebbero imputato almeno di concorso esterno, avrebbero confiscato navi, tonnare, enopolii dandoli in pasto ad una schiera di parassiti dell’antimafia.
Ma c’è poco da scherzare.
Piuttosto è giunto forse il momento che qualcuno in Sicilia ed altrove metta mano all’istituzione di una Associazione delle Vittime dell’Antimafia. Che tante ve ne sono che non sono fatte oggetto di culto e di commemorazioni, ovviamente, anche perché vivono nella paura del peggio. Perché queste ignominie, questo sciagurato sistema falsamente “antimafia” tendente sempre più a divenire mafioso, si fonda in larga misura sull’ignoranza in cui è tenuto il Paese di queste malefatte, della deprecabile demolizione del potenziale economico di intere regioni. E sulle paura. Paura di “essere indiziati”, spogliati, magari, dei beni e rivestiti del “sanbenito” delle vittime dell’Inquisizione.
E’ ora di porre fine a tutto ciò.
Pensiamo, nel nostro piccolo, ad una “Associazione Vittime dell’Antimafia”. Chi sa che non finiremo per ritrovarci tutt’altro che in pochi.
Mauro Mellini