Da noi in Sicilia – e non solo – il gioco delle carte è spesso metafora della vita. Lo si evince dalla lingua parlata. Da noi per dire che una persona non conta niente – si sostiene che vale quanto il due di coppe con la briscola a mazze. Per indicare che qualcuno è ambiguo si dice che gioca con due mazzi di carte. E poi si dice- hai fatto scopa – per indicare che hai trovato la mossa vincente per risolvere definitivamente una questione a tuo favore.
A volte il destino è come un banco che ti passa le carte da gioco. Ad esempio a Michele Ciminnisi la vita aveva servito una moglie e tre figli maschi. Un impiego come autista di scuola bus al comune di San Giovanni Gemini in provincia di Agrigento. Michele Ciminnisi le sue carte se le giocava onestamente – le conservava ed aspettava di tirarle al momento giusto. Da noi in Sicilia si dice che era un “massaro” uno che pensava esclusivamente al bene della sua famiglia.
Il destino dava le carte anche a Calogero Pizzuto – detto Giggino. Gli aveva servito un mandamento mafioso e, come direbbero i poliziotti, un’importante frequentazione, Stefano Bontade che nel frattempo i Corleonesi avevano pensato di eliminare nell’ambito di quella guerra di mafia che si era scatenata in tutta la Sicilia. Giggino Pizzuto le sue carte non le giocava onestamente e oltre ad avere una famiglia ne faceva parte.
I poliziotti quel tipo di famiglia la chiamano consorteria mafiosa ed i magistrati siciliani indagano gli affiliati ai sensi dell’art. 416 bis del codice penale. Giggino, siamo agli inizi degli anni ottanta, rifiuta una partita a carte con Michele Greco – detto U Papa – e non si presenta ad un appuntamento. Qui in Sicilia – quando fai parte di certe famiglie non presentarsi ad un appuntamento o andarci è sempre molto complicato, a volte rischioso.
Il 29 Settembre 1981 il destino decide di far giocare una briscola a Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano. Quest’ultimo è una brava persona come ce ne sono tante a San Giovanni Gemini. I due si trovano dentro un bar, al centro del paese, a pochi metri dal Comune. Come fanno tante altre brave persone quel pomeriggio giocano a carte. Michele Ciminnisi le mescola, Vincenzo Romano spacca il mazzo. Ma il destino ha deciso di far partecipare a quella mano e quindi far incrociare i loro destini con un terzo giocatore, Giggino Pizzuto.
Sarebbe complicato non far partecipare alla mano Giggino od alzarsi e passare la mano. Come si dice qua in Sicilia, in paese il Pizzuto è persona ‘intisa” – nel senso di persona “ascoltata” – le cui parole condizionano il comportamento di altri.

Foto di Marco Scintilla
I poliziotti invece scriverebbero in un rapporto che avesse come oggetto il Pizzuto: “è il numero tre cosa nostra”, ma fa parte di quella “cosa nostra” che verrà presto spazzata dalla ferocia dei “pedi incritati “- piedi sporchi di terra – così come vengono indicati i componenti della famiglia mafiosa dei Corleonesi.
A volte in Sicilia – per non valere quando il due di coppe con la briscola a mazze – si sceglie di far parte della mafia. Si diventa malandrini. Per contare, per non essere “nuddu ammiscatu cu nenti” – non essere nessuno mischiato con niente. Per avere un ruolo – per senso di appartenenza ad una associazione. Per essere, come si dice dalla nostre parti, ricchi di amici e scarsi di guai. Questi soggetti sono le vittime ed allo stesso tempo i carnefici del sistema, gli ingranaggi più deboli e più spietati di “mafia spa”. I soci di minoranza che – invece degli utili a fine della gestione – prendono ergastoli quando gli finisce bene. Piombo fumante quando gli va male. Spesso sono gli esecutori materiali – come scriverebbero i magistrati- i killers come scriverebbero i giornalisti.
Ma torniamo ai nostri tre giocatori che fanno una partita a briscola, ai quali il destino decide di servire tre carte. Non sono carte siciliane – e neanche napoletane – non è nè il sette bello, nè la donna di coppe. È una carta che non c’entra niente con la briscola o con la scopa e non serve neanche per giocare a rubamazzetto, meno che mai a zichinetta. È una carta che si trova nel mazzo di carte dei tarocchi. La figura di questa carta ha la faccia scheletrica e porta una falce. Molti la temono, pochi la invocano, alcuni la distribuiscono a piene mani -meglio a due – come quando impugnano una pistola.
Totò Riina – detto la bestia – e Provenzano – detto u binnu u tratturi perché era abituato a spianare gli avversari – si sono fatti l’idea che Giggino voglia jucari cu du mazzi di carti e decidono di risolvere la questione a modo loro – così come hanno fatto centinaia di volte – e inviano i killer o gli esecutori materiali. Loro, i killer, non uccidono il Pizzuto sotto casa o in una delle tante volte che la loro vittima si trova da sola. No, perché gli ordini sono di fare scrusciu “, di fare rumore. Perché deve essere chiaro chi comanda e che loro, i corleonesi, sono un gruppo spietato. Devono infondere terrore tra i loro nemici e tra la popolazione.
La partita a carte a questo punto sembra finita definitivamente. Ma il punteggio quel pomeriggio non è stato ancora raggiunto. Mancano diversi punti per arrivare a 500 o dodici per vincere a scopa. A questo punto della partita si aggiunge un nuovo giocatore, si chiama Giuseppe Ciminnisi ed è il figlio quattordicenne di Michele.
Quel giorno di settembre del 1981, Giuseppe Ciminnisi gioca con alcuni coetanei a calcio. La madre gli ha raccomandato di recarsi al bar dal padre – dopo aver finito di giocare – perché il papà ha promesso di comprargli un nuovo paio di scarpe. Al bar Giuseppe non ci andrà quel giorno, poiché un amico di famiglia lo porta a casa direttamente. Gli raccontano che il padre è stato vittima di un incidente, ma quando vede a casa sua arrivare i carabinieri capisce tutto.
Quel Giorno Giuseppe giura a se stesso che farà giustizia al padre. Questa, a differenza di come potrebbe sembrare, non si trasformerà nell’ennesima vendetta di mafia, né in un film western dove il figlio fa giustizia al padre a colpi di fucile. Questo è un avvenimento vero dove un piccolo e semplice ragazzo ha deciso di fare giustizia, ma sopra ogni cosa di far condannare gli assassini del padre.
Al ragazzo il destino da tre carte importanti. La prima è il dolore, il senso di abbandono, la mancanza di un padre. La seconda è il coraggio e con questa carta inizia a giocarsi la sua partita.
Questa volta dall’altra parte del tavolo da gioco ci sono solamente – si fa per dire – Totò u curtu e Binnu Provenzano. Il compagno di mano di Giuseppe, inizialmente è un giudice. Si chiama Giovanni Falcone. Il ragazzo decide di andare a trovarlo. Non è facile per un diciottenne entrare nel palazzo dei veleni come i giornalisti chiamavano allora il tribunale di Palermo, ma una volta dentro stabilisce che si sarebbe rifiutato di uscire senza prima aver parlato con il giudice istruttore Falcone.
Il magistrato esce dalla sua stanza, lo ascolta e lo rassicura, ma soprattutto gli riferisce che il padre è morto da innocente e gli garantisce che presto sarà fatta giustizia. Falcone contro i mafiosi vince una mano di poker, si tratta del primo maxiprocesso, ma poi la mafia trucca le carte e gli serve una tonnellata di tritolo. Buscetta in quel processo specifica perché è morto Pizzuto e gli altri due innocenti, ma fa accuse generiche e non indica gli esecutori materiali. Per la giustizia italiana non bastano queste dichiarazioni per far condannare i due massimi esponenti della commissione regionale di cosa nostra.
L’altra carta che il destino passa a Giuseppe Ciminnisi, la terza, è la caparbietà. Giuseppe si mette alla ricerca di carte – ma questa volta non sono quelle da gioco. Sono documenti processuali ed articoli di giornali e scopre che presso il tribunale di Caltanissetta fa delle dichiarazioni un pentito, si chiama Ciro Vara. È conoscitore di fatti di mafia che hanno a che fare con il vecchio mandamento di Giggino Pizzuto. Ricordate una delle carte che il destino aveva fornito al boss ucciso? Giuseppe Ciminnisi scopre che il pentito può riferire elementi utili sulla vicenda della morte del Pizzuto, ma soprattutto importanti circostanze sull’uccisione da innocente del padre.
Va da un amico avvocato e lo mette a conoscenza della sua scoperta. Gli avvocati di solito giocano le loro partite assieme ai mafiosi, ma questa volta l’avvocato Danilo Giracello è compagno di mano di Peppe Ciminisi. La DDA di Palermo ricevute le carte riapre il processo. Giuseppe Ciminisi si costituisce parte civile.
Durante il processo Giuseppe Ciminisi, figlio di Michele, guarda attraverso un monitor quelli che furono i mandanti dell’omicidio del padre. Li osserva e viene osservato a sua volta in videoconferenza e potrebbe sembrare che la partita a carte si svolga virtualmente attraverso i video così come succede adesso con le macchinette. In realtà la partita è concreta e stavolta a perderla sono i due capi dei capi ed a vincerla un ex ragazzo di 14 anni, che non si è mai rassegnato all’uccisione del padre.
Un siciliano che non ha chinato la testa, che non ha mai smesso di credere nella giustizia anche se sono trascorsi trenta anni, anche se ha dovuto pagare di tasca sua la posta in gioco e non si è alzato più dal tavolo giocando ogni mano sino ad ottenere i punti necessari per vincere definitivamente la partita. I bravi giornalisti scriverebbero che Giuseppe Ciminisi ha messo in scacco gli avversari. Qui in Sicilia – come abbiamo detto all’inizio del racconto – in questo caso diciamo: Ciminnisi fici scupa- Ciminnisi ha fatto scopa.