Amazing. Strepitoso, sorprendente, pazzesco. Strepitoso sorprendente pazzesco che tu fossi capitato in ascensore con la ragazza più carina del palazzo, che solitamente ti fa accelerare i battiti e ti fa far lo scemo e invece niente. Niente. Che un bel culo ce l’ha sempre ma al momento non ci hai pensato. Amazing. Strepitoso, sorprendente, pazzesco per te. Per te felice di sentirlo, felice di sorprenderti a pensare a me.
Amazing. Sentirmelo dire. Sentirtelo dire. Con questa parola dal suono morbido ed eccitato insieme. Una carezza con un secondo fine, esplicito. Nessuna traduzione italiana ti accarezza così. Strepitoso sorprendente pazzesco. E si apre una finestra su un istante e su tutta una vita passata, diversa, in cui io non c’ero, in cui un’emozione così non c’era. E tradotto finisce qui. Amazing. E il suono dolce e sospeso di quel finale invece ti si insinua sotto la pelle perché sarà, ancora.
E’ stato facile pensare a Nadia. Nadia che a vent’anni mi ha guardato negli occhi una sera, in mezzo a una di quelle sere matte di vent’anni insieme e mi ha detto io finisco la scuola e me ne vado. Per tante cose e nessuna. E perché non mi piace l’italiano.
Dal sacco dei ricordi i giochi prima, i dispetti, le feste, le capriole nell’acqua, il mare; le prime sigarette poi – quelle oscene sigarette al mentolo -, e la discoteca, i ragazzi, la spiaggia – prove di bacio -, un maglione per due progettato e mai finito, le racchette da tennis legate coi foulard a tenerci da un capo all’altro del marciapiedi, tra gli improperi dei passanti; le collette per strada per … le collette perché tutti facevano le collette, e i ragazzi, i baci, le mani, i racconti, i ragazzi, i baci, le mani – prove di sesso -, un gettone per lasciarlo, uno per dirgli di si, le smorfie allo specchio e lo specchio eravamo noi. I racconti e le parole. E le sue risate matte su ogni singola parola. Nadia vedeva le parole e me le raccontava. E le parole diventavano immagini e storie. Goffe, buffe, ridicole. Ascolta il suono diceva. E il suono suonava come lei lo mimava. Goffa buffa ridicola. Non avrei mai pensato che un giorno quel gioco per lei sarebbe diventato così vero da farle dire me ne vado. Anche perché non mi piace l’italiano. E’ una lingua falsa. Una lingua i cui suoni non corrispondono al significato, all’immagine, al tempo.
Eppure suonano. Di mille suoni meravigliosi. E di immagini meravigliose che bucano la tela dello spazio e del tempo. Che sono uguali e diverse e luminose e buie.
Assenza. Tu.
Silenzio. Tu.
Presenza.
Tu sei qui.
False. Si, forse false. Se è falso ciò che non è universalmente vero. Ma anche una carezza è falsa. E farla è falso e non farla è falso. Falsa la pelle che la accoglie. La mia. Falsa la pelle che la rifiuta. La mia.
E non sentire.
Amazing.
E il suono dentro che si fa spazio e il tempo ruba tempo a mani che tremano e chiedono occhi a guardarle tremare.
Freddo.
Ma non ho freddo. Non ho caldo. Non ho spazio.
Caldo.
Ma non ho caldo. Non ho freddo. Non ho spazio.
Amazing. E non mi sorprende. Non mi sorprende più, non è più pazzesco, non è strepitoso. E’. Che si infila sotto la pelle ancora. Sotto l’assenza ancora. E mentre mi manchi sei qui. Ovunque.
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Nadia non mi manca. A volte ci penso e sento che è strano. Che di tutto il tempo insieme non si conservi il peso dell’assenza. Forse mi manca quando torna. Quando torna o mi telefona e i ragazzi e i baci e le mani e i racconti. E tutto è come prima o come sempre e tutto è diverso. Noi siamo diverse. O forse no. Ma non giochiamo più con le parole e i suoni. Pure potrei provarci.
Ricordare.
Dimenticare.
Mi manchi, non mi manchi.
Di tutto il tempo insieme non si conserva il peso dell’assenza. Mi manca quando torna. Di Nadia mi manca la memoria. Di tutto il tempo insieme. Di tutto quello che insieme siamo state. Una memoria che torna insieme a lei. Che poi dimentico, quando se ne va.
Ricordo, mi manchi. Dimentico, non mi manchi.
Sono verbi strani. Ricordare, dimenticare. Occorre ricordare per dimenticare. Ed occorre un passato da ricordare. Un passato che non c’è più e c’è stato. Un passato che ci manchi. L’assenza è una parola falsa. Che non ha suono. Che è così piena da riempire tutto, da scoppiare dentro. Da bastare. E’ il rumore del silenzio. Lack. Perdita è la parola giusta. A Nadia piacerebbe. Quello che hai perso lo puoi ricordare, sentirne la mancanza. E poi dimenticare.
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Ho visto mani tremare a cercarmi gli occhi sulla pelle per farsi guardare. Faccio spazio nel silenzio. Nel buco pieno dell’assenza. Dove neanche io ci sono. A cercarmi. A cercare un posto in cui ricordarle. Vorrei sorprendermi a sentirne la mancanza quando le perderò.