Si è tenuto presso la Biblioteca Comunale “Paolo Borsellino” di Cianciana (Agrigento), il convegno “Mafia: 150 anni dell’Unità d’Italia, una pagina oscura della nostra storia. La lotta, le vittime, l’informazione”.
Dinanzi una sala gremita da studenti, ma anche da numeroso pubblico di adulti, hanno portato il loro messaggio il sostituto procuratore della Dda di Palermo Salvatore Vella, i giornalisti Gerlando Cardinale e Gero Tedesco e Gian Joseph Morici, editore del giornale on-line lavalledeitempli.net.
A coordinare i lavori Mario Ottavio Caramazza, responsabile della biblioteca comunale di Cianciana.
Dinanzi i ragazzi, alcuni familiari di vittime innocenti della mafia che hanno raccontato le loro toccanti storie.
Storie come quella di Giuseppe Ciminnisi, figlio di Michele; di Nico Miraglia, figlio di Accursio; di Giuseppe Carbone, nipote di Giovanni; di Gerlando Virone, figlio di Mariano.
“Una testimonianza di un periodo storico che per noi era un documento importante”, così definiscono Gerlando Cardinale e Gero Tedesco l’intervista da loro fatta al pentito Luigi Putrone, a seguito della quale hanno pubblicato il loro libro, dal titolo “Addio Mafia”. Putrone è un collaboratore di giustizia, che racconta la sua verità. Una verità, che i magistrati della DDA, hanno sancito essere vera. Nel corso dell’intervento, viene evidenziato come il ruolo dei pentiti sia stato determinante nella lotta alla mafia. Un altro aspetto, è quello delle possibili emozioni provate dal cronista nell’intervistare il pentito. “Ritengo che il cronista debba distaccarsi – afferma Cardinale -, perché il suo compito è quello di fare da tramite tra una notizia e i destinatari della stessa”. Ovviamente, continua Cardinale, intervistare una persona non significa sdoganarla. Luigi Putrone è stato un boss spietato ed è per questo che secondo gli autori del libro, è importante raccontare questa storia, perché si possa capire come si prendono certe strade. Un libro che fa emergere i falsi miti del boss, che vengono raccontati dallo stesso Putrone.
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Carbone Giuseppe, racconta la storia dell’uccisione dello zio, avvenuta nel ’95, quando una mattina, i killer “freddarono” Gaspare Carbone, colpevole solo del fatto di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il mio nome – dice Giuseppe Ciminnisi – non vi dice nulla. Mio padre, è morto ammazzato, come quelli di tanti altri familiari, che ho conosciuto per caso, ma che ho sempre cercato. Giuseppe, racconta la storia di una strage avvenuta nell’81, quando da noi “infuriava” una guerra da mafia. Anche il papà di Giuseppe, si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sta giocando a carte in un bar, quando entra un boss di Cosa Nostra. Poco dopo è l’inferno. I killer sparano, ma i colpi che raggiungono l’uomo, finiscono con l’uccidere anche due altre persone, tra cui il Ciminnisi. “La mia vita è cambiata – dichiara Giuseppe -, non riuscivo a capire perché mio padre fosse morto. Da lì è iniziato il calvario…”. Giuseppe Ciminnisi, ha anche incontrato il giudice Falcone. Di quella strage, parlerà anche Buscetta, dichiarando che erano morte due persone innocenti. Giuseppe è ancora un ragazzo, ma vuole, anzi pretende, che giustizia venga fatta. Grazie al suo coraggio e alla sua cocciutaggine, oltre ovviamente al lavoro di bravi magistrati ed inquirenti, Riina e Provenzano hanno aggiunto alla loro collezione un ergastolo in più. La sua voce è rotta dall’emozione mentre racconta la vita di un ragazzo segnata dalla morte del padre ucciso senza una ragione, da killer spietati che pur di colpire il proprio obiettivo avrebbero ucciso anche cento persone. “Ho chiesto giustizia per mio padre e lo rifarei altre mille volte…”.
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Il sindaco di Cianciana Salvatore Sanzeri, nel ribadire che questa iniziativa è mirata ad insegnare ai ragazzi che è più conveniente vivere in una società dove la legalità sia l’elemento fondamentale, ha voluto ricordare una categoria di persone che è oggi ai più sconosciuta: quella di politici e sindacalisti del passato, caduti sotto i colpi della mafia perché ‘colpevoli’ di aver difeso valori di uguaglianza e di rispetto dei diritti dei più deboli. Colpevoli di aver difeso il lavoro, toccando interessi ben precisi. E per questo uccisi. Uccisi come il padre di Nico Miraglia.
Nico Miraglia spiega cosa significa la cancrena mafia. Lo spiega con le parole di chi ha vissuto sulla propria pelle il danno che può causare quella minima parte della popolazione, che si contrappone ai magistrati, alle forze dell’ordine, alla tanta gente onesta che vive in Sicilia. Racconta di suo padre, ucciso per essersi messo contro le istituzioni dell’epoca e non solo contro la mafia. Di un uomo, la cui frase “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”, venne ripresa anche da Che Guevara. Ma narra anche di una realtà ignorata. Il patto russo-americano (patto di Yalta). Secondo quanto riferito da Nico Miraglia, dopo aver visionato i documenti dei servizi segreti americani, desecretati venti anni dopo, vi fu una sorta di patto tra l’allora governo americano, quello italiano, lo Stato Pontificio e la mafia. Ciò si evincerebbe anche da quanto riportato da uno dei documenti dei servizi segreti, nel quale veniva palesata la necessità di agire senza aspettare che De Gasperi cacciasse i comunisti dalla Sicilia. “Decideremo noi, dove, come e quando agire” veniva dichiarato. Era il 1947, l’anno in cui veniva ucciso Accursio Miraglia. L’anno della strage di Portella delle Ginestre, di quella di Partinico, alle quali fecero seguito un’interminabile serie di delitti mafiosi, tra i quali quello di Placido Rizzotto e quello del sindaco Guarino di Favara.
(Clicca qui per ascoltare l’audio) – (Ascolta la continuazione di Miraglia)
Di censura e responsabilità dell’informazione, parla Gian J. Morici. Una grossa responsabilità, che sta nella dipendenza dell’editoria da poteri politici, imprenditoriali, ma anche mafiosi. Citando il processo Orsa Maggiore, fa presente che anche i magistrati di Catania attribuirono ai giornalisti che non fecero con coscienza il proprio lavoro, grandi responsabilità in merito alla guerra di mafia allora in corso. A Montreal, qualche mese prima che venisse ucciso un mafioso, i giornali lo avevano presentato come il nuovo boss della città. Da noi, è consentito scrivere la parola “mafioso”, solo quando il soggetto in questione è stato ucciso; è stato arrestato; è latitante. Riferendosi a Giuseppe Ciminnisi, dice: quando ha ottenuto la condanna all’ergastolo di uomini del calibro di Riina e Provenzano, era solo. Accanto a lui, non c’era nessuno. Accuse alle quali fanno seguito domande sul bavaglio posto alla stampa; sulla volontà di immobilizzare le forze dell’ordine lasciando le loro auto senza benzina; sul voler mettere i magistrati nelle condizioni di non potere operare dando loro etichette. Sul trattamento dei “pentiti” e sull’uguaglianza tra le vittime di mafia, aggiunge: “Dovremmo dire ai nostri figli fate i mafiosi e poi i pentiti? Io a mia figlia, ho detto studia. Mia figlia ha deciso e dopo gli studi vuol fare il carabiniere!”
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Di differenze, parla anche Ignazio Cutrò. “A Bivona mi chiamano lo sbirro e mi sta bene. Ma non permettetevi di chiamarmi pentito. Non sono un eroe, sono soltanto una persona che ha creduto e crede nella magistratura, nelle forze dell’ordine… I miei figli a scuola sono stati chiamati i figli del pentito. Gli ho risposto che noi non abbiamo nulla di cui pentirci. Il pentito è mafioso e resta mafioso, mentre il collaboratore di giustizia è colui che ha sempre creduto e crede nelle istituzioni. Racconta di come avrebbe potuto ottenere una nuova identità, un lavoro, una vita più serena, eppure, lui ha scelto di restare. Primo caso di un collaboratore, che rinuncia a una vita più facile, per restare, per combattere. L’occasione, è quella giusta, per annunciare il proseguo della sua battaglia, con l’apertura dello sportello antiracket e antiusura, S.O.S. Antiracket”.
“Io vorrei che foste qui, perché alla fine di quest’incontro tornaste a casa ad educare i vostri genitori. E lunedì, tornando a scuola, ad educare i vostri professori”. Parole che devono far riflettere. A pronunciarle, il sostituto procuratore della Dda di Palermo Salvatore Vella. “Siamo in una terra amara, non perché il Signore l’ha maledetta, ma perché le persone che ci vivono hanno fatto e stanno continuando a fare scelte sbagliate. Queste persone – continua il magistrato – sono i nostri vicini di casa, i nostri genitori, i nostri insegnanti, i nostri politici, probabilmente i nostri magistrati. I grandi (rivolgendosi ai ragazzi). Questa terra si può trasformare soltanto se decidete di fare scelte diverse. Non soltanto da quelle che hanno fatto Provenzano e Riina, ma da quelle che fanno gli adulti che ogni giorno vi stanno accanto”. Il sostituto procuratore, dà lezione di legalità, ma anche di vita. Insegna ai ragazzi che anche quello che appare impossibile si può fare. Nella sala, c’è la prova. Ci sono persone, che hanno fatto scelte che solo qualche tempo fa, apparivano impensabili. “Chiedete ai vostri genitori se qualcuno gli ha mai chiesto soldi che non dovevano o cose che non avrebbero dovuto fare. Vedete se vi rispondono guardandovi negli occhi. Se hanno fatto tutto quello che era giusto fare. Questa è la risposta che Cutrò può dare oggi a sua figlia…”. I ragazzi, ascoltano in silenzio. Guardano quell’uomo che può guardarli dritto negli occhi, certo di poter rispondere loro. Sulle vittime di mafia, il magistrato chiede: se è vittima di mafia colui che ha perso la propria vita, chi vive tutta la propria da schiavo, obbedendo e pagando ciò che non deve pagare, cosa è?
Narra poi di un delitto avvenuto lo scorso anno. Di come un giovane padre di tre figli, possa morire accoltellato, mentre il suo assassino, non consente a nessuno di prestargli soccorso. Una storia raccapricciante, anche per il solo fatto che i testimoni, tutti ragazzi minorenni, hanno tentato di coprire l’omicida. “Si può scegliere. Si può scegliere di essere vivi e non morti, di dire nome e cognome, senza mai abbassare lo sguardo…”.
(Ascolta i due interventi, clicca qui) – (Seconda parte dell’intervento del Dott. Vella)
Un convegno, i cui lavori coordinati brillantemente da Mario Caramazza, sono destinati a lasciare un segno nell’animo dei ragazzi, che difficilmente potranno dimenticare quanto hanno sentito da parte dei familiari delle vittime di mafia e da un magistrato che, schierato in prima linea nella lotta alla mafia, ha saputo con molta umiltà toccare le corde del cuore di questi giovani che rappresentano il domani della Sicilia.
Cianciana 14 maggio 2011
Complimenti a questo giornale, ho letto con interesse l’articolo e ascoltato le toccanti parole dei familiari delle innocenti vittime di mafia nonché i vari interventi ed ho molto apprezzato. Mi rammarico di non aver seguito dei lavori così interessanti e importantissimi, soprattutto, per i sani insegnamenti che una società civile dovrebbe dare ai propri giovani e alle future generazioni. Inviti a tenere comportamenti leali, legali e consoni alla crescita comune che dal convegno sono partiti e che fanno merito agli organizzatori dello stesso e a tutti i partecipanti.
Eccellente articolo, meritevole delle pagine di un quotidiano a tiratura nazionale.