Il 14 Dicembre è una data un po’ “particolare” non solo perché si è votata la fiducia al governo, ma soprattutto per gli avvenimenti che si sono sviluppati fuori dai palazzi governativi, ovvero, l’esplosione di manifestazioni di protesta, più o meno pacifiche, ad opera dei cittadini nelle principali città italiane. Non giudico il modus operandi di tali eventi, ma quello che più mi ha colpito è stata la coesione espressa dalle persone che ha determinato la scesa in piazza. L’Italia non è un fenomeno isolato, nel giro di pochi giorni, le cronache, hanno riportato eventi simili anche in altri paesi europei come Francia e Gran Bretagna, ovviamente, le motivazioni sono diverse, ma credo che alla base vi sia un malcontento generale della popolazione.
Non voglio fare un’analisi politica della situazione, ma tali eventi mi hanno spinto a fare una riflessione: dove stiamo andando? Cosa ci aspetta il futuro? Stiamo recuperando un senso d’appartenenza ormai perduto da anni? Siamo ormai stanchi della flessibilità, precarietà, mobilità, e di tutte quelle parole che servono ad abbellire un unico e solo concetto “l’impossibilità di progettare, di crescere, di costruire”.
Ogni epoca è segnata da movimenti politici, culturali, sociali ed economici, che influenzano il modo di vivere delle persone, di relazionarsi e di gestire l’ansia e lo stress, questo inevitabilmente ha consentito lo sviluppo di specifiche psicopatologiche.
Per esempio: durante la rivoluzione industriale assistiamo ad un incremento della schizofrenia, perché lasciare la campagna, la propria casa, la propria famiglia, avventurarsi verso territori ignoti ha fatto sì che l’individuo vivesse tale esperienza personale scissa a due livelli principali: nei rapporti con l’ambiente e nei rapporti con se stesso. Da una parte egli non era capace di sentirsi insieme con gli altri, né di partecipare al mondo che lo circondava, e quindi si sentiva disperatamente solo ed isolato; dall’altro non si sentiva una persona completa e unitaria.
Nei primi del novecento fa da padrona la nevrosi, in quanto, in quest’epoca viene enfatizzata l’aderenza alle regole della società. Una società rigida, che non permette all’individuo di esprimere la propria individualità, la propria creatività. Bloccare l’energia creativa provoca un irrigidimento di alcune parti del Sé, della persona, che ovviamente non permette l’ espressione della spontaneità, del fluire delle emozioni, dell’incontro con l’altro, tutto ciò genera un corto circuito emozionale dato da una difficoltà di gestione dell’ansia.
Nella seconda metà del novecento vi è il narcisismo: tali società sono contrassegnate da un’enfatizzazione della propria individualità, del proprio potere, dalla paura dell’affidarsi all’altro, assistiamo alla frammentazione delle relazioni umane e a volte alla distruzione della dignità dell’uomo o dell’uomo stesso, è l’epoca del “superuomo”.
Ed oggi?
Molti studiosi continuano a definire il periodo storico in cui viviamo contrassegnato dal narcisismo, in parte è vero, ma non credo del tutto. Gli eventi precedentemente narrati mi hanno lasciato una sensazione sulla pelle che è quella di una ricerca di un senso d’appartenenza ormai da troppo tempo perso, un’esigenza di avere confini chiari netti, delle regole ben definite all’interno delle quali ognuno può riconoscersi. Vi è la voglia di non vivere sempre sul filo di un rasoio, ma emerge un bisogno di mettere radici che consentano di costruire un futuro.
Credo che la spinta di questi movimenti è data dalla voglia di uscire da una società borderline, non narcisista, all’interno della quale la confusione impera, i messaggi che arrivano dalla classe dirigente sono ambigui, confusi e poco chiari (viva il precariato ma sei un bamboccione perché ancora a 30 anni vivi in famiglia), vi è un continuo tentativo di manipolare i cittadini dando messaggi poco coerenti tra loro e presentando un’immagine della società poco realistica. In tale contesto l’esplosione della rabbia è inevitabile, è l’unico “adattamento creativo” possibile per la popolazione, ed è proprio essa che unisce. La rabbia, non dev’essere intesa come espressione violenta del comportamento che lede persone o cose, ma, in questo contesto dev’essere intesa come forza propulsiva a fare, come aggressività “sana” tendente a ri-stabilire i legami, a non avere paura di affermare la propria dignità di uomo e i propri diritti, significa co-creare una società dove ognuno può pensare ad un futuro, costruirlo, e avere chiari i confini e gli obiettivi da raggiungere.
Dott. Irene Grado
Psicologa-Psicoterapeuta della Gestalt
Contatti: 338-9908067 e-mail: ire.gr@libero.it
Un ottimo articolo che spiega le motivazioni non solo generazionali della protesta e che non si limitano ad una contestazione della sola riforma Gelmini ma
spiegano lo stato di malessere diffuso in un Paese dove il 10% dei cittadini possiede il 45% della ricchezza nazionale ed il 50 dei connazionali possiede solo il 10 %.Questo squilibrio è tra i più alti in Occidente e ripropone in termini moderni diseguaglianze enormi che fanno tornare indietro le lancette della storia.