
Il 19 luglio 1992, la deflagrazione di Via D’Amelio non solo spezzò la vita di Paolo Borsellino e della sua scorta, ma diede il via a uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana. L’attenzione si è però concentrata esclusivamente sui poliziotti imputati e sul “covo di vipere”, come lo stesso Borsellino definiva la procura di Palermo.
Gli unici che devono rimanere fuori da questa vicenda sono i servizi segreti, nonostante figure come Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera hanno avuto un ruolo nel plasmare la falsa narrazione della strage.
Arnaldo La Barbera, il “superpoliziotto” giunto a Palermo nel 1988 e accolto come il “salvatore” della questura, è stata una figura centrale nella costruzione del depistaggio, legata alle propalazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, un “pupo” imboccato per fornire una ricostruzione artefatta della strage. I magistrati nisseni riposero in lui una fiducia cieca, conferendogli nel gennaio 1993 deleghe ad personam. Questa fiducia, purtroppo malriposta, permise a La Barbera di agire indisturbato, persino a poche ore dalla strage, “predicendo” sviluppi investigativi che avrebbe dovuto ignorare, come il sopralluogo nel garage di Orofino.
Ma se La Barbera era l’esecutore materiale, chi erano i registi? Perché si tende ad evitare il collegamento con i servizi, seppure si accenna la suo doppio ruolo?
Nonostante si tenda a focalizzarsi unicamente sulla responsabilità dei singoli poliziotti, è un fatto che lo stesso Bruno Contrada, anch’egli una figura controversa e “piena di ombre”, fu colui che portò a Caltanissetta un dettagliato rapporto in cui si accreditava il falso pentito Vincenzo Scarantino. Contrada, per anni, è stato un uomo di punta dei servizi, e il suo coinvolgimento nel veicolare informazioni fuorvianti su Scarantino è un tassello fondamentale, troppo spesso tralasciato, per comprendere l’ampiezza del depistaggio.
Le indagini hanno rivelato che La Barbera, noto ai servizi segreti con il nome in codice “Rutilius”, non agiva da solo. La sua posizione di vertice, la fiducia accordatagli e la sua abilità nel “non fare prigionieri” – come lucidamente osservato dal magistrato Domenico Gozzo e riportato dal quotidiano La Sicilia – lo rendevano lo strumento ideale per condurre un’operazione di depistaggio di tale portata. La sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, zeppa di appunti e riflessioni, è un altro inquietante tassello che si lega al ruolo di La Barbera, e di conseguenza, alle influenze che operavano alle sue spalle. Quei fogli, forse contenenti le verità che Borsellino aveva “fame” di rivelare sulla strage di Capaci e sui 57 giorni che lo separarono dalla morte, sono svaniti nel nulla.
Il fatto che la “tesi Scarantino” sia rimasta in piedi per anni, superando tre gradi di giudizio nonostante l’arrivo di boss di Cosa Nostra come collaboratori di giustizia, la dice lunga sulla solidità dell’impianto depistatorio. Solo la figura di Gaspare Spatuzza, “u tignusu”, killer dei Graviano, è riuscita a scoperchiare il vaso di Pandora, rivelando l’inganno.
Il depistaggio di Via D’Amelio è stata una operazione mirata a deviare la verità e proteggere poteri occulti. Una operazione che prosegue ancora oggi inducendo – qualcuno in buona fede e altri no -a concentrarsi unicamente sui poliziotti imputati e sulla procura di Palermo, rischiando di replicare nuovamente un’analisi parziale. Sarebbe fondamentale che le indagini approfondissero il ruolo dei servizi segreti, le connessioni tra figure come Contrada e La Barbera, e le “stranezze” che hanno permesso un inganno di proporzioni così immense, ma tanto alcuni siti e giornalisti, nonché gruppi social, fanno da portavoce alla Commissione antimafia che guarda soltanto al dossier mafia-appalti come unica chiave di lettura per la strage di via D’Amelio, attribuendone la sola responsabilità a Cosa Nostra, rischiando di oscurare un quadro molto più complesso. Questa prospettiva spesso devia l’attenzione da un intreccio di poteri e interessi che, come emerge da nuove indagini e testimonianze, potrebbero aver giocato un ruolo, se non nell’esecuzione, quantomeno nel depistaggio che ha seguito la morte di Paolo Borsellino.
Come sottolineato nell’articolo di Federico Carbone, la figura di Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e uomo chiave nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, è al centro di una narrazione alternativa. Morto, ma non per questo meno influente, Tinebra è ora sotto i riflettori per nuovi sospetti che lo legano ai depistaggi sulle stragi di Falcone e Borsellino. Contrada e La Barbera, cosa rappresentavano, la Mobile di Palermo? E perché Tinebra chiese a Contrada di condurre indagini sulla strage di Via D’Amelio, cosa che non avrebbe neppure potuto fare?
Chi cerca la verità, come può ignorare il coinvolgimento di uomini dei servizi nel depistaggio?
Gian J. Morici