
Lo spregiudicato tentativo di ricondurre le stragi di Capaci e via D’Amelio a fatti di sola mafia, merita le parole (pronunciate in altra circostanza) che prendo in prestito dalla presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, alle quali aggiungo che è semplicemente vergognoso: “continuare a cercare di difendere una cosa che è indifendibile, è folle”.
La strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, non fu un evento isolato, ma si inserì in un più ampio e deliberato progetto di guerra allo Stato da parte di “Cosa Nostra”. Tutto ciò emerge chiaramente dalle sentenze, che confermano come la strategia dei vertici mafiosi fosse diretta a destabilizzare lo Stato con azioni criminali eclatanti, cercando di colpire i referenti politici che non avevano saputo garantire gli interessi dell’organizzazione.
Un elemento di primaria importanza che contribuì a questa escalation di violenza fu l’esito del Maxiprocesso. La sentenza della Corte di Cassazione, che confermò l’esistenza di “Cosa Nostra” e la responsabilità dei suoi vertici, in particolare di Salvatore Riina, fu un colpo durissimo per l’organizzazione. Riina, infatti, si era impegnato spasmodicamente per un esito favorevole del Maxiprocesso, poiché la sua credibilità e l’immagine stessa di “Cosa Nostra” dipendevano dalla smentita dell’impostazione data dal giudice Falcone sulla struttura organizzativa mafiosa.
Le sentenze e le prove raccolte confermano che Giovanni Falcone era nel mirino di Cosa Nostra da anni, ben prima della strage di Capaci. Tuttavia, è a fine 1991 che la prospettiva di una condanna definitiva nel Maxiprocesso, con numerosi ergastoli per gli imputati di mafia, ha rinnovato e intensificato il proposito omicida dell’organizzazione criminale, infondendovi contenuti apertamente terroristici.
Questa “dichiarazione di guerra” di “Cosa Nostra” allo Stato è stata ampiamente documentata e ribadita da diversi collaboratori di giustizia. Le loro testimonianze convergono nell’evidenziare la relazione tra le ragioni politiche e quelle giudiziarie dietro la trama terroristico-mafiosa che ha portato agli attentati, incluso quello contro Falcone.
Come riportato nella sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta sono stati menzionati anche ulteriori progetti di attentato sviluppati nel 1992 da “Cosa Nostra” e non portati a compimento, come:
– il progettato attentato nei confronti dei magistrati Alfonso Giordano e Pietro Grasso, rispettivamente presidente e giudice a latere del “maxiprocesso” nel giudizio di primo grado;
– l’attentato in danno dell’on. Martelli, che non venne eseguito perché il 4 dicembre 1992 Gaetano Sangiorgi e Gaetano Azzolina furono controllati in prossimità dell’abitazione del ministro, quando era in corso l’attività preparatoria dell’agguato.
– il progetto di omicidio dell’on. Salvo Andò, appartenente alla stessa corrente dell’on. Martelli, la cui esecuzione materiale doveva avvenire da parte dei catanesi.
Appare chiaro che tali progetti omicidiari non potevano essere fatti rientrare nella determinazione di “Cosa Nostra” scaturita dall’indagine mafia-appalti a opera dei Ros di Mori, rientrando in un più ampio contesto di omicidi eccellenti ai quali Falcone attribuiva un unico filo conduttore, quali gli omicidi di Michele Reina, Pio La Torre, Mattarella e altri.
La strategia di aggressione allo Stato iniziò ben prima di Capaci, con l’omicidio di Salvatore Lima nel marzo 1992. L’assassinio di Lima, poche settimane prima delle elezioni politiche, fu un chiaro segnale di attacco ai referenti politici ritenuti non più affidabili. Questo omicidio, lungi dall’essere isolato, si inseriva in una sequenza che avrebbe condotto alle stragi, che proseguirono con una serie di atti terroristici di impressionante gravità anche dopo la strage di Capaci e l’arresto di Riina nel gennaio 1993. Tra questi, gli attentati di Via Fauro a Roma (contro Maurizio Costanzo), Via dei Georgofili a Firenze, Via Palestro a Milano e Via del Velabro e Piazza San Giovanni a Roma nel 1993. Tali attentati miravano a produrre un profondo impatto sull’opinione pubblica e a condizionare la vita democratica del Paese, in una vera e propria strategia destabilizzante.
Le sentenze hanno evidenziato come il movente generale di questo piano stragista fosse la destabilizzazione della compagine statale, non fine a sé stessa, ma per la ricerca di nuovi referenti istituzionali in sostituzione di quelli precedenti, ritenuti “del tutto inidonei” a soddisfare le richieste di “Cosa Nostra”. Giovanni Brusca, con il suo contributo, illustrò ulteriori progetti di attentato (come quelli contro Purpura e Di Pietro) e i contatti tra mafiosi e soggetti esterni che rafforzarono Riina nella sua campagna di aggressione.
Giovanni Falcone era da tempo nel mirino di Cosa Nostra. Infatti, già dal 1984 erano stati pianificati attentati nei suoi confronti, come rivelato da numerosi collaboratori di giustizia. Questi progetti, che prevedevano l’uso di lanciamissili, fucili di precisione o esplosivo, furono sempre abbandonati per varie ragioni, spesso legate alla difficoltà di esecuzione senza coinvolgere un numero eccessivo di persone o alla scarsa efficacia degli strumenti. Tuttavia, la condanna a morte di Falcone era una decisione “perpetua” di “Cosa Nostra”.
Già nel 1984, Cosa Nostra aveva impartito a Francesco Onorato (successivamente reggente del mandamento di Partanna Mondello) l’ordine di eliminare Giovanni Falcone a Mondello. Onorato, che ha ammesso la sua responsabilità in altri delitti eccellenti, ha anche confermato la sua partecipazione all’attentato dell’Addaura nel 1989, ribadendo che le condanne a morte di “Cosa Nostra” sono “perpetue”.
Numerosi altri progetti di attentato contro Falcone sono stati confermati da diverse testimonianze dei collaboratori di giustizia, tra cui:
1984/85: Un piano che prevedeva l’uso di piccoli lanciamissili tipo Katiuscia lungo la Favorita per colpire il magistrato mentre si recava in una villa a Valdesi. Questo progetto fu scartato per evitare uno scontro armato con la sua scorta.
1983-1986: Un progetto mirato a colpire Falcone mentre soggiornava in una villetta a Piazza Valdesi, Mondello. Si erano considerate due modalità: un fucile di precisione dall’ufficio del cognato di Ferrante, o l’uso di due bazooka sulla strada della Favorita. Entrambe le opzioni furono abbandonate per problemi di individuazione e scarsa potenza delle armi, come confermato da test sul campo da Giovanni Brusca.
1983 (dopo la strage Chinnici): Un piano per piazzare esplosivo in un vespone o furgoncino tra i pilastri all’ingresso del Tribunale di Palermo, innescato a distanza. Abbandonato per non coinvolgere un numero elevato di persone.
Un ulteriore progetto prevedeva l’uso di fucili e mitragliatori sulla strada tra Palermo e Castellammare, per colpire Falcone mentre si recava da amici.
Questi tentativi dimostrano la volontà ossessiva di “Cosa Nostra” di eliminare Giovanni Falcone, un obiettivo che si è evoluto nel tempo, trasformandosi in una componente fondamentale della più ampia strategia di destabilizzazione dello Stato.
Il dossier mafia-appalti, pur essendo un elemento di grande rilevanza, non fu il movente esclusivo delle stragi – così come oggi lo si vuole fare apparire addebitandone la responsabilità alla sola mafia – ma piuttosto una concausa all’interno di una più ampia e complessa strategia di “Cosa Nostra”. Le indagini e le sentenze hanno chiarito che la decisione di eliminare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era stata decretata ben prima della piena emersione del dossier, e che le stragi si inserivano in un progetto di guerra allo Stato che aveva già visto l’esecuzione di diversi omicidi eccellenti, sui quali lo stesso Falcone indagava.
La strage di Capaci fu, dunque, un momento culminante di una strategia più ampia e brutale di quella che fu una guerra allo Stato, che ha segnato la storia italiana, volta a destituire i referenti politici non più garanti e per riaffermare il potere di “Cosa Nostra”, in un contesto in cui la morte di Falcone e Borsellino era già stata decisa e la violenza aveva già mostrato il suo volto con omicidi eccellenti.
Del resto, la stessa interlocuzione tra i Ros di Mori e Vito Ciancimino, non poteva avere come fine – per “Cosa Nostra” rappresentata da Ciancimino – quello di impedire l’indagine mafia-appalti, peraltro già riportata nel famoso dossier dei carabinieri.
È chiaro che la suddetta interlocuzione rientrava in un contesto di natura più di carattere politico, e di richieste che “Cosa Nostra”, a prescindere dal cosiddetto “Papello”, avrebbe avanzato per mettere fine alle stragi.
Gian J Morici