
“In nome del popolo italiano!” Scusate, in nome del popolo di Facebook, quello di questo circo mediatico-giudiziario italiano, dove la memoria è selettiva e assistiamo all’ennesima tragicommedia.
Imputato, Gioacchino “Gino” La Barbera, ex collaboratore di giustizia reo di parlare “troppo tardi”.
Teste, un ex investigatore che, con la coerenza di un camaleonte daltonico, cambia versione più velocemente di un tweet virale.
Corte (e non solo) l’avvocata-giudice-PM di Facebook, che ci ricorda che c’è chi “legge gli atti”.
La Barbera: il peccato originale di parlare dopo 33 anni… o forse 13 anni prima?
Il dramma si apre con il nostro ex investigatore che, in un impeto di sdegno e indignazione (e probabilmente un pizzico di frustrazione), si scaglia contro La Barbera. “Dopo 33 anni te ne esci con questa rivelazione?”, tuona, accusandolo di aver taciuto alla DIA e di aver dimenticato dettagli cruciali. Trentatré anni, un’eternità, un’era geologica per la credibilità di un collaboratore di giustizia. La Barbera sembra aver commesso il crimine imperdonabile di non aver aggiornato in tempo reale le sue dichiarazioni, come se la memoria fosse un’app da sincronizzare ogni mattina.
Colpo di scena: le nuove dichiarazioni sono vecchie, ma… è colpa di Report
L’avvocata-giudice-PM di Facebook, con la sua inestimabile saggezza da social media, illumina la giuria facebucchiana: le dichiarazioni di La Barbera risalgono al 2012. Dodici anni fa, quindi non trentatré anni dopo. E lì, il nostro ex investigatore cambia registro. Non è più La Barbera il problema, ma Report che pesca notizie vecchie e le spaccia per nuove. La coerenza, un attimo prima si lamenta del ritardo trentennale, un attimo dopo si lamenta della “vecchiaia” delle dichiarazioni. E intanto, la questione “Stefano Delle Chiaie” è archiviata, ci ricorda l’avvocata, suggerendo che Report si diletti a ripescare scheletri dall’armadio giudiziario che non hanno superato il vaglio delle indagini. Quindi neppure l’ex investigatore legge gli atti e si pone le domande? Non gli disse nulla “Gino”? Non sapeva che le dichiarazioni erano del 2012? O forse la sua lettura degli atti è selettiva?
Avola: 27 anni di ritardo sono un dettaglio insignificante
Quella di Maurizio Avola è la ciliegina sulla torta dell’assurdità.
Avola, collaboratore di giustizia dal 1994, si autoaccusa della strage di via D’Amelio ben 27 anni dopo l’inizio della sua collaborazione, ma per Avola, nessun “Gino, ma perché non l’hai detto prima?”, anzi il suo racconto, contenuto nel libro di Michele Santoro, nonostante non abbia convinto la procura di Caltanissetta, sembra godere di una sorta di immunità temporale.
Persino qualche giornalista esperto di cose di mafia, dedica post e articoli alle dichiarazioni di Avola, criticando altri bravi colleghi che sembrano non condividere le sue teorie.
Le sue dichiarazioni di Avola, rilasciate un quarto di secolo dopo, sono meno vecchie o più credibili di quelle di La Barbera? È una questione di carisma o semplicemente di quel sottile invisibile filo che decide chi può parlare e quando?
Tra applausi, like ed emoticon cala il sipario.
In questa farsa del Tribunale di Facebook, il tempo è un elastico che si allunga o si accorcia a piacimento e la credibilità è una merce rara. L’ex investigatore, l’avvocata-giudice-PM di Facebook, qualche giornalista e La Barbera si muovono su un palcoscenico dove la logica si è presa una vacanza e la coerenza è un optional. Ma forse, in fondo, è proprio questo il bello del teatrino di Facebook: più è assurdo, più ci si diverte…
Gian J. Morici