Potrebbe essere giornalismo d’inchiesta, se da parte dei media non si trasformasse in una perversa inclinazione a spettacolarizzare la giustizia per costruire romanzi che tengono incollato il pubblico dinanzi la tv – luogo ormai, purtroppo, deputato allo svolgimento dei processi – confondendo fatti reali, pettegolezzi e autentiche bufale, al fine di insinuare nell’opinione pubblica sensazioni che portano a ipotizzare facili giudizi affrettati, partendo spesso da altrettanto facili pregiudizi.
Ecco dunque che le dichiarazioni di un mitomane – così lo aveva definito Giovanni Falcone – come Alberto Volo, trovano ampi spazi in una trasmissione del servizio pubblico, omettendo di analizzare l’unico dato certo sulla credibilità attribuita da Falcone alle dichiarazioni dello stesso Volo, per dare spazio a illazioni che adombrano la serietà professionale del giudice Paolo Borsellino.
Inchiesta giornalistica o reality show?
L’irreale diventa reale, in un teatrino dell’assurdo nel quale il grottesco diventa dramma.
“La trasmissione di Rai3 ‘Report’ – scrive Damiano Aliprandi su ‘Il Dubbio’ – tira fuori un interrogatorio del neofascista reso ai pm nel 2016. Dichiara che Borsellino lo avrebbe sentito in gran segreto e si sarebbe confidato con lui. Così non si rende onore alla memoria dei giudici.
Dare per certo che Paolo Borsellino, a giugno del 1992, abbia non solo ascoltato in gran segreto il neofascista Alberto Volo (definito un “mitomane” da Falcone stesso), ma addirittura che si sia confidato con esso, è inaccettabile sia dal punto di vista deontologico ma anche di rispetto per la memoria di un serio magistrato. A questo aggiungiamo che Report, essendo a maggior ragione una trasmissione del servizio pubblico, non può omettere ciò che Falcone ha cristallizzato nella requisitoria del 1991 sui delitti eccellenti a proposito di Volo stesso”.
Dura la critica, e come potrebbe essere diversamente, che il giornalista muove ai colleghi (da Repubblica a Report) che danno spazio a nuovi documenti che dovrebbero poter fare riaprire l’inchiesta, appena archiviata, sulla pista Nar del delitto Mattarella.
“Un verbale – scrive Aliprandi – non è assolutamente inedito: parliamo dell’interrogatorio che Falcone fece a Volo nel 1989. L’altro è sicuramente “inedito”, ma è la dichiarazione di Volo stesso che ha fatto nel 2016 ai magistrati Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo. E cosa riferisce? Di aver incontrato Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci e che il giudice gli avrebbe confidato di essere certo che ad armare quell’attentato contro il collega Falcone non fu la mafia. Dare credito a questo suo racconto, vuol dire che si dipinge Borsellino come una persona ridicola.
Il verbale del 2016 non è servito a nulla per la pista Nar per il delitto Mattarella
Il 25 giugno 1992, in pubblico a Casa Professa, diceva di avere informazioni da riferire sulla strage di Capaci ma che era suo dovere di magistrato riferirle all’Autorità competente per quei reati, ma nel contempo si sarebbe intrattenuto con un signore le cui dichiarazioni sono state definite deliranti dal suo amico Falcone. Pensarlo, non è accettabile. Quello del 2016 è un verbale del tutto inutile. Non è entrato in alcun processo sulle stragi che erano in corso. Così come non è servito a nulla per la pista Nar per il delitto Mattarella”.
Quale fosse l’opinione del giudice Falcone, rispetto l’attendibilità di Volo, è noto e cristallizzato nella requisitoria del 1991.
Perché dunque tentare di dare una patente di credibilità a un soggetto che in passato si era reso protagonista di espedienti che già nel ’91 avevano minato la bontà delle sue dichiarazioni, coinvolgendo, e denigrando, in questa narrazione giornalistica, la figura di Paolo Borsellino?
“Come si può solo immaginare che nonostante ciò, Borsellino non solo lo avrebbe incontrato, ma che gli avrebbe esternato anche delle delicate confidenze?” – scrive infatti Aliprandi.
Ancora una volta, un certo giornalismo sembra voler continuare a proseguire quella caccia alle streghe che per trent’anni ha impedito di far piena luce sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.
“La chiave di tutto – scrive il giornalista del Dubbio – sta nella diffidenza di Borsellino verso i colleghi della Procura di Palermo e nel dossier mafia-appalti
Non stiamo qui a elencare i verbali al Csm inediti, le sommarie informazioni di autorevoli magistrati, le testimonianze di varie personalità come la dottoressa Liliana Ferraro o Antonio Di Pietro. Emergono prepotentemente due questioni fondamentali: la diffidenza di Borsellino nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo e l’indagine mafia-appalti. Quella è la chiave, come ripetutamente denunciano i figli/e di Borsellino e il loro legale Fabio Trizzino. Non a caso, durante l’attuale processo di Caltanissetta sul depistaggio (Mario Bo + altri), sono state effettuate domande incalzanti da parte dell’avvocato Trizzino e il Pm Stefano Luciani nei confronti degli allora titolari di quell’indagine. Sul sito di Radio Radicale si possono ascoltare. Quella è la chiave, ma è in atto una vera e propria ‘strategia della confusione’. Perché?”
Forse lo stesso perché che sta nelle ragioni per le quali si “costruirono” diversi pentiti – uno per tutti Scarantino – funzionali ad alcuni processi e a una stampa troppo spesso prona dinanzi a taluni magistrati i cui flop giudiziari hanno paradossalmente spianato la via a brillanti carriere.
Gian J. Morici