Potrebbe sembrare paradossale se non fosse la triste realtà della situazione carceraria italiana, dove per stabilire la compatibilità con la detenzione penitenziaria entrano in gioco varianti che poco hanno in comune con il concetto di giustizia. Giovedì – come pubblicato nell’articolo di ieri (È malato ma lo sbattono di nuovo in galera: ucciso dalla furia antiscarcerazioni) a firma del giornalista Damiano Aliprandi, su “Il Dubbio”, è morto un detenuto nel carcere di Parma. Era tra quelli gravemente malati che a fine aprile aveva usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue gravi condizioni di salute. Già vittima di un infarto, afflitto da scompensi polmonari al punto che era costretto a respirare con l’aiuto della bombola dell’ossigeno 24 ore su 24, il magistrato di sorveglianza, anche per l’emergenza Covid 19, ne aveva disposto la scarcerazione.
Poi, scoppia il caso “scarcerazioni, e sull’onda emotiva si procede a una stringente rivalutazione del caso che finisce con l’attestare la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. L’assegnazione del detenuto al centro clinico del carcere, le difficoltà a curarlo all’interno del penitenziario, il trasferimento in ospedale nel reparto detentivo, la morte. Fine della storia!
Soddisfatta l’opinione pubblica a seguito della vittoria del processo mediatico, soddisfatta la politica dei proclami e del “parlare alla pancia degli italiani”, a prescindere dall’opinione che ognuno di noi può avere in materia di certezza e di qualità della pena rimangono le domande senza risposta.
Qual è il senso di norme che prevedono una valutazione di compatibilità con la detenzione in carcere, se poi la valutazione della stessa è affidata al comune sentire, al processo mediatico e all’interesse politico del momento? Quali sono i criteri adottati per stabilire la compatibilità con il carcere di un detenuto affetto da gravi patologie?
Se alla prima domanda non si può dare alcuna risposta, se non quella che ognuno di noi nel suo intimo ben conosce, la seconda una risposta potrebbe trovarla nell’art. 61 c.p.c., che consente al giudice di avvalersi di uno o più consulenti tecnici (CTU) per farsi assistere nella valutazione di questioni tecniche in materia delle quali non ha adeguata competenza, come nel caso della valutazione dello stato di salute del detenuto. Una figura dunque centrale dalla quale dipende l’esito di un processo o un’istanza. La nomina del Consulente Tecnico d’Ufficio è di natura fiduciaria e ogni giudice si avvale di professionisti iscritti in appositi Albi professionali, tenuti presso i Tribunali. Anche la parte ha diritto a nominare dei periti che possiedano gli stessi requisiti e professionalità.
In teoria, dunque, tanto il giudice, quanto la difesa, dispongono degli stessi strumenti. In realtà così non è. Il giudice, perito dei periti – che non ha competenza tecnica della materia – viene chiamato ad esprimersi, valutando, da una parte le relazioni tecniche di un suo incaricato, nel quale ovviamente ha la massima fiducia – avendolo nominato proprio a seguito di un rapporto fiduciario -, dall’altra, quelle di un perito di fiducia della difesa.
Ne risulta pertanto che, seppure non sotto il profilo formale, l’imparzialità del giudice nell’emettere una sentenza o nell’accogliere un’istanza venga già condizionata dalla fiducia accordata in partenza ai consulenti che ha nominato. Inutile chiedersi quindi quale sia il valore attribuito al perito o ai periti nominati dalla difesa rispetto quello attribuito a consulenti nominati dallo stesso giudice. La morte del detenuto ha dato una chiara risposta.
Un aspetto certamente non secondario – a prescindere dal caso in questione – è poi quello del perito nominato dal Tribunale che – seppur inconsciamente – sarà portato a essere più incline a dare un parere quanto più favorevole possibile a quello che riterrà essere l’indirizzo del giudice che gli ha conferito l’incarico fiduciario.
Come può, dunque, la consulenza disposta da un giudice fornire l’acquisizione di informazioni utili a una decisione precisa ed equa? Perché un medico legale – anche tra i più rinomati e spesso nominato quale CTU – nel momento in cui viene nominato da un giudice è meritevole della massima fiducia e gli vengono riconosciute doti professionali e morali di altissimo livello, mentre se viene nominato dalla difesa, nello stesso Tribunale nel quale gli sono state sempre riconosciute queste qualità sembra averle perse?
Le divergenze di pareri espressi sul singolo caso non riguardano soltanto i CTU e i periti di parte, poiché, talvolta, i pareri del medico legale nominato dal giudice sono contrastanti finanche con quelli dei medici di strutture pubbliche che hanno in cura un paziente detenuto.
È questo il caso di Antonio Vaccarino (anziano, malato e in attesa di giudizio) il quale il 3 luglio, a causa di un forte dolore toracico viene trasportato urgentemente al pronto soccorso su richiesta da parte del servizio sanitario del penitenziario che ritiene il detenuto sia in pericolo di vita. Ricoverato d’urgenza nel reparto di cardiologia, viene sottoposto a coronarografia e ad intervento di angioplastica con impianto di stent medicato.
Vaccarino era già affetto da gravi patologie cardiache e i suoi legali di fiducia, gli avvocati difensori Giovanna Angelo e Baldassare Lauria, avevano più volte presentato istanza chiedendone gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute e per la sua età avanzata. Istanze sempre rigettate dal Tribunale di Marsala (compreso quella presentata successivamente all’intervento di angioplastica) in quanto per i CTU nominati dal giudice la sua condizione di salute era compatibile con il carcere. Nonostante dunque le relazioni dei periti di parte presentate dalla difesa – nelle quali si palesavano i timori di quanto poi verificatosi il 3 luglio – nonostante il servizio sanitario del penitenziario avesse ritenuto il detenuto in pericolo di vita, nonostante fosse stato ricoverato con urgenza, le sue condizioni di salute erano compatibili con il carcere. Sottolineavano i CTU, comunque, la necessità di eseguire successiva scintigrafia miocardica per valutare la persistenza della pervietà dello stent e se esistessero fenomeni di ischemia residua, e inoltre, procedere a una rivalutazione Holter al fine di considerare l’opportunità di un impianto di pacemaker.
Il 29 luglio, l’ambulatorio di cardiologia della struttura penitenziaria registrava il referto Holter dal quale risultava come il paziente avesse avuto fibrillazioni atriali per tutta la durata della registrazione e come nel corso della stessa si fossero verificate 11 pause, di cui la più lunga di 3,79 secondi. La stessa struttura penitenziaria, considerata la gravità della situazione, richiedeva che il paziente-detenuto fosse sottoposto a una visita aritmologica presso un centro di riferimento per le aritmie.
Gli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo, dinanzi al peggioramento della situazione clinica del Vaccarino, nell’evidenziare come lo stato detentivo rischi di esasperare ulteriormente le condizioni di salute anche per il grave stato di ansia che affligge il loro assistito, presentano nuova richiesta di sostituzione della misura in atto con quella degli arresti domiciliari, ponendo all’attenzione del Tribunale che le 11 pause notturne (il cuore si ferma) sono il campanello d’allarme delle malattie del sistema cardio-circolatorio che costituiscono a tutt’oggi la più frequente causa di morte.
Il 4 settembre, il Tribunale di Marsala ha conferito un nuovo incarico ai periti che già in precedenza avevano seguito il caso, accertandone sempre la compatibilità del detenuto con il regime di carcerazione, formulando il seguente quesito:
“Accertino i periti le condizioni attuali di salute dell’imputato Vaccarino Antonio Alla luce degli accertamenti diagnostici svolti dopo l’effettuazione della precedente attività peritale, verificando se le attuali condizioni siano meno compatibili con il regime carcerario, eventualmente anche con la visita dell’imputato.”
L’avv. Angelo, presente in udienza, ha chiesto di poter integrare il quesito del giudice affinchè i periti verifichino se per la situazione cardiologica e di ipertensione attuale il Vaccarino è in pericolo di vita; se lo stato di detenzione provoca uno stato di ansia che può aggravarne le condizioni di salute; se una eventuale contrazione del Covid in carcere può rappresentare un rischio per le condizioni di salute dell’assistito e se può causare pericolo di vita.
Per il Tribunale, le argomentazioni proposte dalla difesa – che forse avrebbe anche ampliato – sono da ritenersi comprese nell’unico quesito posto dal Tribunale.
Ancora una volta, l’ultima parola spetterà ai Consulenti Tecnici d’Ufficio nominati dal giudice, che determineranno l’esito della decisione.
Escludendo – così com’è giusto che sia – qualsivoglia forma di dolo o di negligenza, appare evidente come le norme che regolano la nomina dei CTU andrebbero riviste, impedendo che questi si trasformino in una controparte dei periti di parte, con un ascendente sul giudicante che li ha nominati in un rapporto fiduciario. Questo al fine di garantire un equo processo e l’emergere di una verità processuale senza condizionamento – seppure inconsapevole – che permetta al giudice di osservare quella terzietà di giudizio alla quale è chiamato. Quanti casi come quello di Parma dovranno ripetersi prima che vengano riviste le norme attualmente in vigore?
Gian J. Morici
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