“Roma polo di attrazione di tutte le mafie”.
La relazione della Dia
“La strategia camaleontica attuata dai sodalizi mafiosi ha reso più difficile comprendere e far emergere il fenomeno, favorendo in tal modo i tentativi di condizionamento delle amministrazioni locali”
Il documento è stato presentato al Parlamento. La Cupola non esiste più perché diversi mandamenti non vogliono più una struttura sovraterritoriale che possa influire sui propri affari. Messina Denaro comanda solo a Trapani. Purtroppo, dopo 26 anni di latitanza, la relazione della Dia non riersce a dare una linea che conduca alla cattura che libererebbe definitivamente il territorio dal boss. La pressione dello Stato , negli ultimi anni ha raggiunto livelli altissimi. A Castelvetrano è stato controllato tutto. Da oltre 10 anni ci sono inchieste e arresti . La famiglia del boss e gli amici più stretti sono in carcere. Chi protegge ancora questa canaglia? Una latitanza ha bisogno di collegamenti. Una persona che ha l’età di Matteo Messina Denaro non può essere esente da problemi di salute e di altri beni. Oppure è un “marziano” e riesce a sfidare le leggi della natura. La pressione dello Stato continua . Pure il comune è stato sciolto. Occorre capire meglio il camaleontismo di Messina Denaro e di chi, forse lo ha sempre aiutato e ancora, non è stato sfiorato dalle indagini degli investigatori. Come si può spiegare una latitanza così lunga se Mesina Denaro non ha più l’appoggio delle altre famiglie mafiose? Almeno, secondo le ultime dichiarazioni della DiaMessina Denaro è stato “posato”
Nella relazione della Direzione investigativa antimafia si ribadisce il ruolo del latitante come rappresentante provinciale, ma secondo i massimi investigatori rimarrebbe un incarico formale. Sul territorio, in ogni caso, è la sua famiglia a comandare. Nonostante i tanti arresti ancora il clan di Messina Denaro, secondo la Dia comanda
La provincia di Trapani continua ad essere nella morsa di Cosa Nostra che monopolizza la gestione delle più remunerative attività illegali e condiziona il contesto socio economico dell’intero territorio provinciale. È quanto emerge dalla relazione semestrale della Dia che dedica ampio spazio al ruolo del boss latitante Matteo Messina Denaro. Per gli investigatori, il latitante castelvetranese, nonostante le numerose operazioni che hanno portato all’arresto di fedeli e fedelissimi, continua a mantenere il duplice ruolo di capo del mandamento di Castelvetrano e di rappresentante provinciale di Cosa Nostra. Un ruolo però che, stando alle recenti dichiarazioni dei massimi investigatori, sarebbe sempre più formale.
Una leadership messa in dubbio, però, dalle parole del questore di Palermo Renato Cortese che, nel corso di un’intervista rilasciata al Sole 24 ore online aveva descritto Messina Denaro come «un soggetto che probabilmente non ha più alcun ruolo nell’organizzazione e che quindi è defilato, non lascia tracce, non partecipa alle riunioni, non ha strategie criminali, gli affiliati non rendono conto a lui. È un soggetto che si sta facendo la sua latitanza probabilmente anche fuori dalla Sicilia».
Lo stesso generale Giuseppe Governale, numero uno della Dia, indicando il 2019 come l’anno della cattura del boss, ha sottolineato come Messina Denaro pur rimanendo a capo della cosca trapanese non sarebbe più operativo da tempo. Il superlatitante ha trovato spazio anche nella relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2018 del presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, che ha competenza anche sul distretto di Trapani. «Si può ragionevolmente escludere una interferenza del noto latitante Messina Denaro Matteo nelle dinamiche associative dei mandamenti palermitani», ha sottolineato Frasca, ponendo un altro tassello nella tesi, ormai prevalente tra investigatori e inquirenti, che vuole un Matteo Messina Denaro sempre più estraneo alle decisioni di Cosa Nostra sul territorio.
Mafia e Capitale
L’area della capitale, “sede di importanti infrastrutture, di istituzioni politiche ed amministrative e di numerosissime attività commerciali, costituisce un polo di attrazione per la criminalità organizzata”. Anche per “la disponibilità di imprenditori e pubblici funzionari compiacenti ad aderire a richieste e comportamenti di natura corruttiva”. È un quadro inquietante quello disegnato dal focus dedicato a Roma e al suo hinterland dall’ultima Relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia.
“Dall’esame delle manifestazioni criminali – scrivono gli analisti della Dia – emerge l’esistenza di una struttura di natura reticolare che tende ad infiltrare i luoghi del potere decisionale ed economico, e nel cui ambito i singoli sodalizi ora stringono alleanze temporanee, funzionali all’ottenimento di obiettivi puntuali, ora possono – ma più di rado – entrare in conflitto. L’atteggiamento violento, infatti, permane come una forma di ‘capitale quiescente’, pronto all’occorrenza ad esplodere se vengono minacciati gli interessi delle consorterie”. Roma, metropoli internazionale, “è crocevia di affari, nonchè punto di incontro privilegiato tra organizzazioni criminali italiane e straniere”.
LA STRATEGIA CAMALEONTICA – “La strategia camaleontica attuata dai sodalizi mafiosi – avverte la Relazione – ha reso più difficile, nel tempo, comprendere e far emergere il fenomeno, favorendo in tal modo i tentativi di condizionamento delle amministrazioni locali. Era opinione comune, fino agli eventi più recenti che hanno svelato il quadro di ‘Mafia Capitale’ che il prevalente interesse coltivato dalle mafie tradizionali impiantate nella capitale fosse quello del riciclaggio” ma “la complessa vicenda giudiziaria a carico del gruppo Buzzi-Carminati ha dimostrato il cambiamento metodologico dei gruppi criminali, che talora procedono affiancando all’intimidazione violenta la sopraffazione imprenditoriale e la pervasiva ‘colonizzazione’ del sistema burocratico-politico. Un’organizzazione che, avvalendosi dell’interazione del metodo intimidatorio con quello corruttivo, era riuscita ad inserirsi in alcuni settori della gestione amministrativa del Comune di Roma”.
Secondo la Direzione Investigativa Antimafia «la ricostituzione di questa struttura, dopo molti anni di inattività, non sembrerebbe auspicata da tutte le rappresentanze dei mandamenti, specie di quelli più attivi nella gestione delle attività economiche anche fuori dal territorio di competenza che, abituati ad agire quasi in autonomia, potrebbero soffrire la restrizione delle regole imposte dalla Commissione».
Una tendenza che però, rileva la Dia, che però è «ancora in evoluzione, proprio in relazione alla ricostituzione della Commissione provinciale».
Lo scenario che si delinea è comunque di una mafia, per come la conosciamo, in crisi perché «l’azione di contrasto delle Istituzioni, ha condotto alla sottrazione di consistenti patrimoni di origine illecita ed all’arresto di un elevato numero di affiliati e di capi a cui si è sommato il prolungato stato di detenzione di numerosi elementi di vertice e comunque dei boss più autorevoli, molti dei quali sottoposti al “carcere duro” e per questo anche dislocati in vari istituti penitenziari del territorio nazionale, circostanza che ha ulteriormente inciso sulla lunga mancanza di una effettiva struttura di vertice – la cosiddetta cupola – legittimata a prendere decisioni in nome di tutta Cosa nostra – a causa della detenzione dei suoi componenti e soprattutto del capo, Salvatore Riina, deceduto, come noto, il 17 novembre 2017».
Ma non bisogna cantare vittoria perché come rileva la Dia «le mafie traggono la “linfa vitale” necessaria a rigenerarsi in soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione». La mafia insomma investe sempre di più su «imprenditori e liberi professionisti», ma punta anche ad arruolare «operai comuni» e soggetti «in attesa di occupazione» nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni. Nell’analizzare il fenomeno la Dia sottolinea come le mafie, nonostante «la forte azione repressiva dello Stato», continuino ad avere una «capacità attrattiva» sulle giovani generazioni, non solo nel caso di figli di boss o di ragazzi provenienti da famiglie mafiose ma anche e soprattutto quando queste fanno parte di un bacino molto più grande di «reclutamento generale» dal quale «attingere manovalanza criminale». Un bacino che continua ad essere alimentato dalle difficili condizioni sociali del sud: il reclutamento, dice infatti la Dia, «non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa».
In sostanza, le mafie riducono «sensibilmente l’iniziativa imprenditoriale lecita, approfittano dello stato di bisogno di molti giovani e speculano sulla manodopera locale, dando l’effimera sensazione di distribuire un salario (sempre minimo per generare dipendenza e senza garantire i contributi previdenziali e quindi un futuro) ai giovani impiegati al suo servizio perché privi di alternative».
Concetti che i numeri esplicitano in maniera ancora più chiara: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di “mafiosi” con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60).
LE MAFIE TRADIZIONALI – Roma costituisce “un territorio strategico per la ‘ndrangheta, che da tempo colloca fidate ‘teste di pontè chiamate ad adottare metodologie criminali improntate alla minore visibilità, specie se correlate al reimpiego di capitali illeciti. Determinante è la rete relazionale che le cosche sono riuscite ad intessere, nel tempo, con professionisti, operatori economici ed esponenti del mondo della finanza, disponibili a prestare la propria esperienza per agevolarne gli interessi sul piano nazionale ed estero”: la capacità di infiltrarsi nel territorio, dissimulando le proprie tracce, rende però difficile tracciare una mappatura esatta dei clan.
Fonte : Dia, Meridione News