Sono trascorsi quattro anni da quando, tornato da Parigi per una breve vacanza, mi ritrovavo a percorrere la strada per Palermo. Un appuntamento con l’avvocato Rosalba Di Gregorio, che mi avrebbe accolto nel suo studio per parlare del suo libro dal titolo “Dalla parte sbagliata”.
Era il mese di luglio e nonostante la canicola siciliana, appena superato il bivio di Capaci sentii un brivido gelido percorrermi la schiena.
Rosalba Di Gregorio, mi accolse con simpatia e gentilezza. Non era la prima volta che ci incontravamo. Le volte precedenti era accaduto nelle aule dei tribunali, dove io mi trovavo per scrivere delle vittime di mafia e lei a difendere i boss. Troppo spesso accade che un avvocato venga identificato con l’assistito, dimenticando che l’avvocato è un professionista che esercita la propria attività e che, com’è giusto che sia, ognuno di noi ha diritto alla difesa, a prescindere da chi siamo o da cosa abbiamo fatto.
Inutile dire come la mia scelta di intervistare l’Avvocato del Diavolo, come veniva definita la Di Gregorio in quanto difensore di fiducia di boss di indiscusso spessore, mi comportò non poche critiche.
In quella circostanza, parlammo a lungo di pentiti, di depistaggi, di responsabilità che andavano ben oltre la mafia delle coppole e delle lupare. Un argomento difficile, quando i mostri sacri della giustizia non potevano esser messi in discussione, quando non si doveva parlare di altre responsabilità né di errori. Ma Rosalba è una donna coraggiosa e non si lascia certo intimidire. Così, indifferente a critiche, accuse e pressioni, ha continuato imperterrita a gridare una verità che sembrava essere solo sua.
Misi nero su bianco ogni parola. Oggi, finalmente, quello che lei affermava da tempo sui depistaggi sulla strage di via D’Amelio, sull’inattendibilità del pentito Scarantino e sulle responsabilità di livelli diversi da “cosa nostra” nelle stragi, è storia. Sancita dalla sentenza del Borsellino Quater. Rileggendo le parole della nostra lunga conversazione, sembra quasi di leggere una sentenza. Non una sentenza qualunque ma quella sul depistaggio messo in atto sulle stragi del ’92. Le ci sono voluti oltre 25 anni per dimostrare che aveva ragione lei, ma infine la verità, o parte di esse, è venuta fuori: aveva ragione l’Avvocato del Diavolo!
Quattro anni dopo
È nuovamente luglio. Ancora afa, sudore. Eppure, oggi come allora, un brivido mi percorre la schiena. Ho letto decine, centinaia, migliaia di pagine di verbali e sentenze. Ho ascoltato ore e ore di deposizioni del processo contro Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. Ho saputo e ho scritto di un presunto testimone di incontri tenutisi nel ’91 a Castelvetrano, per pianificare le stragi.
Eppure manca qualcosa. Manca la madre di tutte le inchieste. Quella madre mai rimasta gravida. Manca la storia dei depistaggi ante litteram. Se oggi sappiamo con certezza che dopo le stragi si mise in moto la macchina per depistare le indagini, cosa sappiamo di ciò che avvenne prima? Vi starete chiedendo che depistaggi si potevano mettere in atto nel momento in cui non era avvenuto ancora nulla. Forse quelli idonei a far sì che l’attenzione degli investigatori venisse spostata da chi in quel preciso momento stava organizzando le maledette stragi di mafia che avrebbero insanguinato prima la Sicilia e poi il resto d’Italia?
1991
I vertici di “cosa nostra” si riuniscono a Castelvetrano. I Graviano, i Madonia, i Lucchese, i Messina Denaro. Obiettivo, pianificare le stragi. Ma il 1991, è anche la data in cui un “uomo d’onore riservato”, così dice di essere, inizia a collaborare con la giustizia. Il suo nome è Vincenzo Calcara. Calcara racconta di come da Francesco Messina Denaro avrebbe avuto l’ordine di prepararsi a uccidere il Giudice Paolo Borsellino. Un progetto del quale, a suo dire, sarebbe stato il primo a parlare.
Così non è, ma non è questo il punto. Durante quel periodo, un altro collaboratore di giustizia, Rosario Spatola, narra la mafia del trapanese. Lui, ex uomo d’onore, racconta i misteri di “cosa nostra”. Sarà poi lo stesso Giudice Borsellino, nel corso di un’audizione dinanzi al Csm, a sostenere che il pentito non era un uomo d’onore. Tolto Spatola e la Filippello, pentita anch’essa sconfessata, l’unico collaboratore, al quale anche in seguito verrà consegnata una certa credibilità (non da parte di tutti i magistrati) rimane Vincenzo Calcara, l’uomo di fiducia di Francesco Messina Denaro; l’uomo al quale verranno assegnate le più improbabili e segrete missioni di “cosa nostra”, a partire dalla consegna di 10miliardi di vecchie lire a Paul Casimir Marcinkus, per finire con il coinvolgimento nel progetto omicidiario in danno di Papa Giovanni Paolo II.
Un “uomo d’onore riservato” a conoscenza delle più segrete cose di “cosa nostra”. Ma cosa disse nel lontano 1991 a proposito della mafia trapanese? Poco o nulla. Come dirà poi il dottor Massimo Russo nel corso dell’intervista pubblicata da “La voce di New York”, Calcara che si autoaccusa di essere “uomo d’onore riservato” della famiglia mafiosa di Castelvetrano e di essere stato “punciuto” da Francesco Messina Denaro, non solo non avrebbe mai fatto parte di “cosa nostra”, ma avendo taciuto il nome di Matteo Messina Denaro – in quel momento non ancora latitante e intento a organizzare e partecipare ai summit a Castelvetrano nel corso dei quali si pianificarono le stragi – portò il magistrato ad accusarlo “di autocalunnia, per essersi falsamente accusato di fare parte di Cosa Nostra con l’aggravante di averla agevolata avendo, secondo l’ipotesi accusatoria, impedito o comunque ritardato con le sue false dichiarazioni – da accertarsi quanto “farina del suo sacco” e quanto eventualmente ispirato o sollecitato da altri e da chi- le indagini nei confronti dei veri appartenenti a Cosa Nostra”.
Perché stupirsi dunque se nel corso del mese di giugno ho più volte chiesto a Calcara perché non fece mai il nome di Matteo Messina Denaro? Perché stupirsi se mi sono anche chiesto se solo avesse fatto quel nome, cosa sarebbe accaduto? Borsellino, sarebbe stato ucciso, o controllando Matteo Messina Denaro – che è bene ricordare come in quel momento non fosse latitante – si sarebbe arrivati agli incontri a Castelvetrano tra i vertici di “cosa nostra”, e agli incontri tra mafia, politica e imprenditoria?
Calcara, sulle ragioni per le quali non fece il nome di Matteo Messina Denaro, nel corso dei nostri colloqui telefonici ha sempre tergiversato, promettendo che ne avrebbe poi spiegato le ragioni (quando, visto che sono passati oltre 25 anni dalle stragi?).
*Ha sempre tergiversato, tranne il 24 giugno, quando ha affermato di aver più volte fatto il nome del boss latitante, ma ben tre procure avevano insabbiato tutto.
Calcara, millantatore? Calcara, uomo d’onore? O come disse il Dottor Massimo Russo, dovrebbe accertarsi quanto “farina del suo sacco” e quanto eventualmente ispirato o sollecitato da altri e da chi?
E se questo non bastasse a far sorgere qualche spontanea domanda, saranno sufficienti le affermazioni di Calcara nel sostenere di avere fatto pentire più soggetti?
I giudici avevano già evidenziato come “la fuga di notizie sulle dichiarazioni dello Spatola costituiva una splendida occasione per chi, come il Calcara, voleva riferire di circostanze a lui non note”, ma come spiegare che Calcara, così come lo Spatola o lo stesso Scarantino, resero dichiarazioni alle quali vennero trovati riscontri, senza che gli stessi – stando a quanto riportato in atti giudiziari – avessero le qualità per esserne a conoscenza?
La risposta, probabilmente ve la siete già data da soli…
Gian J. Morici
- Questa frase, registrata così le altre e le costanti contraddizioni, restano nella disponibilità della Magistratura o di chiunque, avendone titolo, vorrà farmene richiesta.