
Il caso Santospirito e la lunga ombra delle contaminazioni militari
In Italia, il riconoscimento delle vittime del dovere – ossia coloro che, pur non caduti in combattimento, hanno subito danni permanenti a causa del servizio reso allo Stato – è ancora un percorso a ostacoli. Lo dimostra con drammatica chiarezza il caso di Paola Maria Alessandra Santospirito di Taranto, moglie di un sottufficiale della Marina Militare dichiarato Vittima del Dovere, amianto e metalli nocivi. Una storia che interseca malattia, esposizione ambientale, lentezze burocratiche e responsabilità istituzionali taciute.
2001-2005: Le missioni militari e il contatto con sostanze tossiche
Tutto ha inizio nei primi anni Duemila, quando il marito della signora Santospirito, Luogotenente della Marina Militare, viene impiegato in due missioni internazionali in Albania, nel 2001 e nel 2005. Al rientro, viene sottoposto a controlli sanitari e per un breve periodo incluso nel “Protocollo Mandelli”, predisposto per monitorare i militari esposti a contaminanti di guerra come uranio impoverito, metalli pesanti e nanoparticelle. Tuttavia, i controlli appaiono parziali e discontinui.
Nel corso degli anni, l’uomo sviluppa diverse neoplasie, documentate da esami istologici datati 2003 e 2016. Solo nel 2019, grazie a nuove indagini mediche, emerge la presenza sistemica di nanoparticelle metalliche ad alta tossicità, confermate da analisi cliniche oltre l’asbestosi già diagnosticata nel 2015.
2007-2019: Il silenzioso propagarsi della malattia
Nel 2007, anche Paola Santospirito riceve una diagnosi devastante: carcinoma mammario, trattato con mastectomia radicale, chemioterapia, immunoterapia e ormonoterapia protratta per oltre dieci anni. In assenza di predisposizioni genetiche (i test BRCA1 e BRCA2 risultano negativi), la donna intraprende un percorso di indagine ulteriore che porta, nel dicembre 2019, all’esecuzione di test istologici. Il risultato è sconcertante: le stesse nanoparticelle metalliche rilevate nel marito vengono rinvenute anche nel suo organismo.
L’ipotesi, scientificamente fondata, è che l’esposizione sia avvenuta per via indiretta: contaminazione ambientale secondaria, connessa all’attività del coniuge e ai materiali militari. È lo scenario oscuro e documentato delle “case contaminate”, dove le polveri portate a casa dagli indumenti da lavoro diventano veicolo di malattia anche per i familiari.
2020-2022: L’istanza e il rimpallo delle responsabilità
Forte delle evidenze scientifiche, delle perizie mediche e di una relazione dettagliata del dottor Vincenzo Cagnazzo, la signora Santospirito presenta un’istanza formale per il riconoscimento dello status di Vittime del Dovere, come cittadina privata (legge 510/99).
Ma la macchina amministrativa si inceppa. Il Comitato di Verifica per le Cause di Servizio (CVCS), organo del MEF incaricato della valutazione, non riesce a procedere: manca la “percentualizzazione dell’infermità”, documento indispensabile che la CMO di Taranto non emetterà mai.
Nel frattempo, nel 2022 la signora scopre di avere anche l’asbestosi, con insufficienza respiratoria.
2023-2024: La perseveranza e il ricorso legale
La signora Santospirito non demorde e presenta nuovamente ricorso e scrive anche al Presidente del Consiglio dei Ministri, e successivamente verrà invitata dal Sottosegretario di Stato Matteo Perego. Ad oggi nulla è cambiato, la signora ha presentato anche due petizioni alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica, ma non c’è la volontà politica di aiutare le persone che si sono ammalate indirettamente all’interno delle mura domestiche, a causa delle sostanze nocive portate dai mariti che lavorano presso le Forze Armate.
Parallelamente, emergono altri casi simili: Taranto, sede dell’Arsenale Militare, è stata spesso al centro di inchieste ambientali e giudiziarie sull’uso e l’abbandono di materiali contaminanti, tra cui l’amianto e metalli pesanti in contesti bellici e civili.
Una vicenda esemplare
Il caso Santospirito non è solo la storia di una donna ammalata. È il paradigma di una nazione che fatica a riconoscere le proprie responsabilità, soprattutto quando queste si annidano tra le pieghe dell’apparato militare e sanitario.
Il principio del “dubbio a favore del cittadino”, previsto dalla normativa sulle vittime del dovere, sembra invertito: è la vittima a dover dimostrare l’indimostrabile, in un labirinto di documenti, mancanze e rifiuti.
Una verità ancora da scrivere
Nel tempo delle emergenze sanitarie, delle transizioni ecologiche e delle commemorazioni ufficiali, è paradossale che si dimentichino proprio coloro che hanno pagato, con la malattia o la morte, il prezzo della propria dedizione allo Stato. Lontano dai riflettori, il caso di Paola Santospirito è il volto umano di una tragedia collettiva sommersa: quella dei contaminati silenziosi, dei malati senza nome, delle famiglie che convivono con una giustizia differita, negata o semplicemente rinviata.
Il nodo non è solo amministrativo o giuridico. È morale.
In una società matura, il riconoscimento del danno non dovrebbe essere una conquista a posteriori, ma un atto spontaneo di responsabilità. E invece si assiste, ancora una volta, al capovolgimento del principio costituzionale di tutela: chi serve lo Stato o ne condivide i rischi, anche indirettamente, viene lasciato solo davanti all’invisibile, alle polveri, ai silenzi.
Ogni particella che si insinua nei polmoni, nel sangue, nei tessuti, è una prova non vista. Ma il corpo, come un archivio ostinato, la conserva. E chiede voce.
Sta ora al Paese ascoltare, rispondere, risarcire. Perché non c’è democrazia che possa dirsi tale se ignora il dolore di chi ha portato, persino senza volerlo, il peso di una colpa non sua.
Nel frattempo, le nanoparticelle continuano a circolare invisibili, e con esse una verità che ancora fatica a essere pronunciata.