Dove si nasconde Matteo Messina Denaro, il boss di “cosa nostra” condannato all’ergastolo per le stragi di Roma, Firenze e Milano del 1993? È irreperibile da 25 anni e l’ipotesi che non sia in Italia è sempre più forte. Una latitanza dorata che viene finanziata dai suoi sodali nel più tradizionale dei modi. Per trovare risposte a queste domande, la giornalista Rita Pedditzi si è recata a Trapani dove ha intervistato il Colonnello Rocco Lo Pane, capo della sezione della Direzione Investigativa Antimafia trapanese.
Nel corso dell’intervista andata in onda all’interno del programma “Inviato speciale” di Rai Radio 1, del 21 aprile, la Pedditzi ha toccato diversi aspetti dell’organizzazione mafiosa trapanese. Gli affari, le inchieste, la latitanza del boss.
È a Trapani che gli uomini della DIA hanno bloccato una serie di società che spaziano dall’energia eolica, ai grandi appalti, al traffico delle opere d’arte, alle scommesse online. Quella trapanese – rimarca la giornalista – è una mafia che mira ai grandi affari.
“Sono in corso numerose indagini e vengono seguite diverse piste- sostiene il colonnello Lo Pane facendo riferimento alla latitanza di Matteo Messina Denaro – E’ possibile che sia nel territorio o che ci sia stato, ma anche che sia in luoghi lontani dal suo territorio. Non escludiamo anche una sua presenza all’estero.”
Secondo il capo della sezione della DIA, la mafia Trapanese è una mafia imprenditoriale che da sempre accanto alle tradizionali attività criminali ha imparato a investire i proventi delle attività illecite nelle attività tradizionali, fiutando però anche i nuovi business e infiltrandosi tra questi. In particolare, il mercato della produzione di energia da fonti rinnovabili.
Cosa nostra non parteciperebbe direttamente nell’investimento per la realizzazione di queste strutture, che sono appannaggio di grossa società, infiltrandole nella fase preparatoria e facendo sì che si creino le condizioni per poter operare in questo settore agevolando quei soggetti che ottengono le autorizzazioni amministrative per poi venderle alle multinazionali che le realizzano.
Queste figure – i cosiddetti facilitatori – sono in contatto con “cosa nostra” e fanno sì che l’apparato amministrativo rilasci più facilmente le autorizzazioni. Poi si inseriscono nella fase produttiva legata alla realizzazione degli impianti, che richiedono investimenti per centinaia di milioni di euro, con l’esclusione delle imprese pulite.
Ma si tratta di una mafia imprenditoriale che comunque non rinuncia alle attività tradizionali. Come si può ascoltare infatti in un’intercettazione tra Ignazio Melodia, detto il dottore perché è un medico, e un imprenditore. Melodia, condannato a fine marzo a 6 anni, è il capo della famiglia di Alcamo, uno dei mandamenti mafiosi della provincia di Trapani. Viene contattato da imprenditori che erano stati oggetto di un danneggiamento per capire se dietro questo danneggiamento ci sia un’attività estorsiva o altre ragioni. Gli imprenditori riferiscono di una richiesta di denaro pervenuta da soggetti della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, comune che rientra tra le competenze del Melodia. Dinanzi questa affermazione, il Melodia illustra il metodo di funzionamento di “cosa nostra” dicendo ai propri interlocutori che è da escludere che il danneggiamento sia stata opera degli appartenenti alla famiglia mafiosa di Castellammare, perché tale gesto doveva essere autorizzato dalla sua persona in quanto capo del mandamento.
Così facendo lui dichiara la sua appartenenza mafiosa, confessa il suo ruolo ai vertici dell’organizzazione e allontana i sospetti del danneggiamento dalla famiglia mafiosa. Poi spiega come nonostante il danneggiamento non sia stato ad opera di soggetti mafiosi, per non correre di questi rischi quando gli imprenditori hanno attività in un altro territorio devono pagare i alla famiglia mafiosa a cui fa riferimento il territorio.
Le parole del capo mafia, spiega il colonnello Lo Pane, nascondono un tipico sistema espressivo adottato da “cosa nostra”, per cui le vittime subiscono avvertimenti e minacce che fanno sì che si creino le condizioni perché le vittime stesse si rivolgano all’organizzazione mafiosa per chiedere protezione. Una protezione che, nonostante li porti a pagare il “pizzo”, fa sì che le stesse vittime provino un senso di gratitudine nei confronti dei propri carnefici che li mettono al riparo da altri pericoli.
Cosa Nostra nel trapanese
Dinanzi le domande della giornalista, ancora una volta è il capo della DIA a spiegare come la struttura storica nel territorio di Trapani sia stata raccontata dai collaboratori di giustizia, che hanno indicato l’esistenza di quattro mandamenti mafiosi e di come il latitante Messina Denaro rivesta anche la posizione di capo della provincia trapanese e la rappresenti in seno a Cosa Nostra.
Il passaggio di denaro dalle vittime al boss latitante
Secondo la ricostruzione della Direzione Investigativa Antimafia, che nel corso di questi anni ha effettuato numerosi arresti, non c’è un passaggio diretto di denaro al latitante. Si tratta di passaggi che avvengono attraverso una catena piuttosto lunga per cui vengono creati fondi neri con denaro contante che viene consegnato agli uomini di Cosa nostra che li consegnano ad emissari del latitante – a volte a familiari –che poi a loro volta li destinano ad altri soggetti che li faranno arrivare in ultima istanza anche al latitante. Una lunga serie di passaggi per rendere più difficile il lavoro agli investigatori.
Ma non di sole estorsioni si interessa la mafia trapanese. Tra gli interessi di “cosa nostra”, anche quelli legati al traffico di opere d’arte che stando ai collaboratori di giustizia rientrava già tra gli interessi del padre di Matteo Messina Denaro, che aveva intuito quanto importante e lucroso potesse essere questo mercato per un territorio come quello nostro, da dove le opere trafugate raggiungevano anche i ricchi mercati svizzeri.
Ma quali strategie investigative sono state messe in atto per individuare la rete di fiancheggiatori della quale si avvale il boss latitante?
Un lavoro meticoloso quello fatto dagli inquirenti che per individuare la rete dei favoreggiatori hanno confrontato i dati relativi tra gli introiti dichiarati dai vari soggetti e le uscite che gli stessi hanno. Confronti tra acquisti, investimenti, dichiarazioni fiscali, che hanno consentito di individuare sperequazioni sostanziali che hanno portato a individuare molti dei fedelissimi del boss. Si tratta di indagini lunghissime e laboriose ma che in ultimo hanno portato ai risultati sperati.
È invece ancora un’incognita la successione di Totò Riina, poiché nonostante i molti arresti di fedelissimi di Matteo Messina Denaro che continuano a reggere le fila della complessa macchina organizzativa attorno al latitante e che venerano lo stesso come Padre Pio, la guida di “cosa nostra” da parte sua, dopo la morte di Totò Riina – come spiega il colonnello Lo Pane – al momento non è ancora credibile e si sta cercando di capire se è già iniziato l’accesso alla successione.
Messina Denaro Messina Denaro- secondo la DIA – in questo momento rappresenta certamente la figura di “cosa nostra” più carismatica. Certamente ha una forte influenza nei confronti di tutti i membri dell’organizzazione mafiosa ma questo non è sufficiente per poter affermare che gli abbia assunto il ruolo di capo dell’organizzazione.
Gian J. Morici