Il caso del “pentito” assassino “delegato alle indagini”, calunniatore “raccomandato” da Torino ai magistrati di Cagliari, Rocco Varacalli può considerarsi un dato emblematico della “questione dei pentiti”. Ma non è, in quasi tutti i suoi aspetti più inverecondi, una “novità”. Anzi: è un “caso emblematico” del “pentitismo” proprio perché non è affatto un’eccezione.
Non è una novità neppure il “pentitismo”, come è stato battezzato il sistema delle indagini fondato sui “benefici premiali”, cioè sulla compravendita delle dichiarazioni dei correi. Sistema in uso (ma con qualche limitazione e salvaguardia inesistente oggi in Italia) negli Stati “preunitari”. Ho più volte ricordato quanto avveniva nello Stato Pontificio, in cui il Papa poteva concedere, su istanza dei presidenti dei Tribunali, la promessa di impunità agli imputati di certi reati, che assumevano così la qualifica di “impunitari”. A conclusione del processo, se la loro “collaborazione” fosse risultata utile e veritiera, venivano sentenziati “impuniti”. Di qui l’uso popolare della parola “impunito” come ingiuria che significava (è stato in uso a Roma fino a qualche anno fa, mi pare che ora sia scomparsa nell’evoluzione del dialetto romanesco) sfacciato, arrogante, mentitore, traditore.
Senza che ve ne fosse traccia nelle leggi, in periodo fascista si fece un uso “disinvolto” di delatori “pentiti”. Famoso, per il libro che ne narra le vicende scritto da una sua vittima, Ernesto Rossi, “La spia del Regime”, Del Re, traditore per denaro dei suoi compagni di “Giustizia e Libertà”.
E’ singolare il comportamento successivo alla sua mascalzonata: non smise mai di “bussare a denari”, tanto da far infuriare Mussolini, che, però finì sempre per sottostare alle implicite minacce di quel turpe “scheletro negli armadi” del regime fascista.
Fin da quando con le inchieste di Falcone a Palermo e, poi, con quelle del maxi processo della Nuova Camorra Organizzata, di cui fu vittima Tortora e, prima ancora, con i processi per fatti di terrorismo politico, l’uso di pentiti divenne “normale” e manifesto, la questione dell’attendibilità di questi cosiddetti “collaboratori di giustizia” apparve come ineludibile. E tuttavia elusa sfacciatamente da procuratori e giudici.
Si noti che l’uso dei pentiti da parte di magistrati assurti a modello della “lotta” al terrorismo e, poi, di quella contro la mafia e le altre forme di criminalità organizzata, fu iniziato facendo a meno di una legge che consentisse di promettere e distribuire “premi” di impunità o di attenuanti ai cosiddetti collaboratori. Si può dire quindi che il “pentitismo” dei nostri giorni è nato male, come un espediente illegale, con promesse di “premi” illegali, con il ricorso da parte dei magistrati, “glorificati” per questo loro mercato, ad atti e comportamenti che sconfinavano quasi sempre, o nel millantato credito o in altri illeciti e veri e propri delitti.
Ma anche quando, prima con le leggi antiterrorismo, poi, con il decreto legge con l’emendamento Gorgoni, il sistema “premiale” fu “legalizzato”, altri ed ancor più gravi problemi emersero. Quale valore probatorio dare alle dichiarazioni dei “pentiti”, dei “complici”; cioè, comprati con l’impunità (o quasi)?
Se dobbiamo dare a questo interrogativo una risposta basata su quello che è stato l’andazzo della giustizia italiana in questi ultimi decenni, essa è, purtroppo: “la rilevanza ed il valore probatorio che pare e piace ai magistrati”.
Le esercitazioni retoriche sulla motivazione della “credibilità”, “attendibilità” della parola dei pentiti, dei “riscontri” (termine ben presto divenuto di moda) necessari (cioè che è necessario inventarsi!) per considerare le “chiamate di correo” prove sufficienti per condannare, sono un campionario delle malefatte della ragione umana (si fa per dire).
Qualsiasi pare, frammento, circostanza oggetto della dichiarazione di cui si potesse affermare esser riconosciuta la verità, è, per i ghirigori verbali delle motivazioni, prova dell’attendibilità dell’inteso. Ad esempio (fatto da un noto ed autorevole magistrato!!!): se un “pentito” dichiara che ha incontrato Tizio sotto un certo ponte ed è provato che il ponto esiste davvero, questo è un “riscontro” del racconto dell’incontro ed il “pentito” è “attendibile”.
Quando, con il codice di procedura del 1989 si pensò di stabilire regole certe e a tal proposito, si arrivò a quell’art. 192 comma 3° del c.p.p. che è un capolavoro di inconcludenza logica e di verbosità inutile.
C’è stato un processo, di chiara costruzione ed impostazione politica, quello a carico di Giacomo Mancini, parlamentare, ministro, leader indiscusso del socialismo calabrese, imputato, manco a dirlo, di “concorso esterno in associazione mafiosa”, in cui è reperibile un campionario di queste lepidezze, forse per una, ancor più scarsa del solito, abilità delle componenti il collegio giudicante in questo “giuoco delle tre carte”. Il Procuratore “antimafia” di Reggio, Boemi, aveva inviato una circolare a tutti i “pentiti” calabresi collocati in vari punti di Italia per invitarli a venire a deporre a carico di Mancini. Ne arruolò una schiera che, benché palesemente addestrata, brillò per le contraddizioni, le amnesie, le imprecisioni, il manifesto “adattarsi” di ciascuno alle dichiarazioni degli altri, “l’ubbidienza” ai “suggerimenti” del P.M. ogni volta che questi muoveva al loro “soccorso”. E, poi le stucchevoli motivazioni.
Ogni processo di una certa importanza (ed importanti erano, e sono, i processi che suscitano un certo clamore) ha visto episodi del genere. E sono emerse incredibili operazioni di illecito “reclutamento”, “premi” in denaro per chi le sparasse più grosse (i miliardi promessi per il “testimone oculare” del bacio di Andreotti a Totò Riina!!!). Un notissimo pentito, utilizzato nel processo a Mancini, Pino Scriva, aveva in precedenza dichiarato di avere ricevuto la promessa di un miliardo e poi di essere stato “frodato” da un Maggiore dei Carabinieri che lo avrebbe indotto ed aiutato in una evasione da una Caserma dei C.C. (mentre risultava detenuto in un carcere del Nord!!) allo scopo di fargli perdere quel “buon affare”. Nessuno lo incriminò per calunnia, né incriminò il Maggiore almeno per procurata evasione!!!
Nomi celebri di pentiti sono legati alle loro malefatte, ai comprovati mendaci. Ed a delitti spudoratamente da loro commessi mentre erano “sotto protezione” (come Varacalli).
Omicidi, estorsioni, traffici di droga. E calunnie.
Un pentito di mafia agrigentino, Falsone (momen omen!) fu colto con le mani nel sacco per aver attribuito ad un altro imputato un omicidio commesso da un suo cugino. Confesso, fu condannato ad una lieve pena per calunnia.
Ma le sue “rivelazioni” su altri “correi” (tra cui un innocente che sconta una ingiusta condanna all’ergastolo) non furono considerati meno “attendibili”. Anzi, scrisse la Corte d’Appello di Palermo, la confessione del nuovo reato lo rendeva ancor più credibile, perché “pentito due volte”. Non è una barzelletta, purtroppo.
Quando nel nostro codice di procedura penale ed addirittura nella nostra Costituzione è stata introdotta la norma specifica secondo cui la condanna può essere pronunciata quando l’imputato risulti “colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio” (espressione mutuata dal frasario giudiziale anglosassone, cioè dai film e polpettoni televisivi cui attingono i nostri legislatori) avrebbe dovuto cambiare radicalmente il criterio di valutazione della “prova” rappresentata dalla parola dei pentiti. Invece non è successo niente. Le parole non costano nulla a chi fa le leggi e nulla importano a chi dovrebbe applicarle.
Ma siamo giunti in fondo al pozzo.
Casi come quello di Varacalli ci dicono che non si può continuare così. Dipenderà da noi. Non possiamo più renderci complici di tanta barbarie.
Mauro Mellini