Se occorressero altre prove della sfacciata strumentalità prevaricatrice dell’Antimafia, queste ce ne darebbe in abbondanza ciò che sta avvenendo a Roma, sotto gli sguardi, distratti da ogni doverosa comparazione con altri casi di Governo, stampa, giuristi (e sedicenti tali).
Parafrasando un manifesto del P.D. per Marino assai poco azzeccato dell’allora ancor recente campagna elettorale che ci aveva dato il Sindaco Marino con la sua Giunta di Centrosinistra, in cui si leggeva “Questa non è politica è Roma” (particolarmente cretino, perché diretto a sfruttare istinti scatenati dell’antipolitica), alle prime notizie della retata per l’inchiesta col “nome d’arte” Mafia Capitale, io titolai un mio scritto “Questa non è mafia è Roma”.
Il marciume del mondo politico-assistenziale-affaristico oggetto di quell’inchiesta non ho mai potuto ritenerlo inquadrabile nella pur sgangherata fattispecie dell’art. 416 bis.
Quella imputazione era (ed è) frutto di una dilatazione pressappochista del fenomeno mafioso, se non di una strumentale utilizzazione delle “specialità” processuali “antimafiose” che essa comporta, in un’inchiesta che si profila lunga e difficile.
Ma tant’è. I fatti emersi non sono meno gravi e rivoltanti di quelli correttamente (si fa per dire) riconducibili all’associazione di stampo mafioso. Semmai il riferimento alla mafia serve ad accompagnare l’idea che il marciume “spartitorio” sia una recente acquisizione della Capitale della Repubblica, “salito” a Roma dalla Sicilia, dalla Calabria, da Napoli. Invece “è” Roma, così come essa è da decenni, da quando il consociativismo catto-comunista ha cominciato a prendere corpo e ad imporre le sue condizioni ed i suoi metodi di sfruttamento del potere.
La “novità” di questa fase del “sacco di Roma” (chi ricorda i titoli della battaglia dell’Espresso, soffocata dalla magistratura con pene detentive pesanti per la pretesa diffamazione della Società Generale Immobiliare etc. etc.) è l’apporto determinante fornito dall’etica e dai metodi di latrocinio “di Sinistra” costituito, soprattutto, dall’uso spregiudicato delle Cooperative.
A lungo si è riusciti a creare il mito, da dare in pasto a chi fosse di bocca buona, che cooperative significasse pulizia ed esclusione dell’affarismo delle Società per Azioni, delle S.r.l., dei palazzinari etc. etc.
Esser ricorsi alla contestazione del reato di mafia, si direbbe sia un mezzo per “baipassare” questa cortina di perbenismo sinistroso dietro cui ladroni di Destra e di Sinistra disinvoltamente si riparavano per “rubare sul sociale”.
Ma la storia della mafia, quale che debba essere la sorte di tale qualificazione giuridica nelle fasi successive della vicenda, impone comunque oggi e subito che le leggi emanate per combatterla siano applicate.
In altre parole: se non si scioglie l’Amministrazione Comunale di Roma dopo quello che è successo, che dimostra che, mafia o non mafia, non “infiltrazioni” e “condizionamenti” delittuosi si sono verificati, ma un torrente torbido è dilagato nelle strutture del Comune, che, fino a che non sono scattati gli arresti non se ne è dato per inteso delle porcherie più note e risapute, sarà meglio che il Ministero dell’Interno si guardi bene dal prendersela, d’ora in poi, con gli Amministratori Comunali Siciliani e Campani. L’Antimafia è, anche sotto il profilo dei suoi “interventi”, largamente discrezionali con finalità e preconcetti di parte, in base a leggi speciali, abbondantemente sputtanata.
Scioglimenti di amministrazioni comunali in base a semplici avvisi di garanzia recapitati ai Sindaci ed Amministratori in circostanze e con modalità tali che è lecito domandarsi se l’unica finalità di quell’atto processuale sia stata quella di consentire lo scioglimento dell’amministrazione elettiva, non mancano.
E non mancano, tra questi, casi in cui lo scioglimento sembra finalizzato a consegnare il Comune allo sfruttamento da parte di affaristi “antimafia”.
Tutta la legislazione repubblicana intesa a salvaguardare l’autonomia degli enti locali dagli interventi di prefetti operanti secondo gli interessi politico-elettorali del governo (di giolittiana memoria) è stata baipassata con la solita storia delle “necessità della lotta alla mafia”.
Se questo non è un argomento che induce ad unirsi al coro (strumentale) per lo scioglimento dell’Amministrazione Marino della Capitale (che si aggiunge allo scetticismo circa la definizione “mafiosa” dell’enorme corruttela imperante nel Comune) e se non è priva di fondamento la preoccupazione per il disdoro nazionale per l’eventuale scioglimento dell’Amministrazione della Capitale, non si vede perché analoghe preoccupazioni non debbono sussistere quando si tratta di “sciogliere per mafia” altri Comuni.
I quali hanno pari diritto ad essere protetti dal disdoro di un tale intervento. Che spesso è stato effettuato e pubblicizzato non senza un trasparente intento di offendere l’intera comunità.
Basti pensare al modo in cui la stampa diede notizia dello scioglimento dell’Amministrazione di Racalmuto: “Sciolto per mafia il Comune di Leonardo Sciascia”. Sciolto per l’iscrizione, nel registro degli indagati del Sindaco, durata quattro mesi e seguita dall’archiviazione richiesta dagli stessi P.M. che l’avevano disposta. C’era in quei titoli di una stampa vicina (per non dir altro) a certi interessi che risultarono manifestamente beneficiati da quello scioglimento, una certa dose di rivalsa e di dileggio postumo verso lo Scrittore che aveva osato per primo parlare di “professionisti dell’antimafia”.
Le vicende della cosiddetta “Mafia Capitale” dovrebbero essere oggetto da parte di criminologi seri (quali non sono i mafiologi in circolazione) di studi nel crearsi intorno alle complicazioni inestricabili delle amministrazioni dei nostri giorni di organizzazioni di sfruttamento criminale che ne rappresentano una specie di appendice. Qualcosa, quindi di diverso e di opposto alla mafia, che, invece tende ad “occupare”, “condizionare” gli organismi della vita pubblica.
Ma non abbiamo certo, qui ed ora, l’intendimento di tentare disquisizioni socio-criminali.
Se, dunque i motivi relativi a più o meno reali “infiltrazioni” e “condizionamenti” mafiosi per lo scioglimento di Amministrazioni locali, sono incerti e strumentalizzabili, al di là di quanto ciò è insito ed inevitabile a causa della stessa vaghezza dei significati dei termini usati dalla legge, sarebbe ora di finirla con l’ipocrisia ed il preteso dell’antimafia.
Visto che l’intangibilità dell’autonomia è una chimera, di fronte alle autentiche situazioni fallimentari, a scandali di sperperi inconcepibili, estesi e radicati, fenomeni di corruzione, incontrastati, scempi urbanistici, si prevedano forme di intervento di Autorità statali o regionali (con la dovuta prudenza) per lo scioglimento delle Amministrazioni, magari preceduto obbligatoriamente da un periodo di tempo che consenta ad esse di adeguarsi ad intimazioni specificamente previste e stabilite per legge. Ma finiamola con questi infamanti ed ipocriti “scioglimenti antimafia”. Che non si fanno per Roma per evitare un disdoro di cui non ci si preoccupa, che so, magari, per Racalmuto.
Chiedere ciò al “riformatore” Renzi è come chiederlo ad un muro. Ma non è fatica sprecata immaginare e dar forma ad idee di riforma che potrebbero realizzarsi anche senza intenti retorici, demagogici o truffaldini.
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info