Come non definire “mostri” i vigili urbani di Torino che hanno fermato una donna al nono mese di gravidanza per sequestrare l’auto della quale era alla guida e che risultava sottoposta a fermo amministrativo a colpa dei bolli non pagati, senza prendere in considerazione il pancione e lasciando la donna da sola sotto il sole a sessanta chilometri da casa? A raccontare ai lettori la storia di Miriam Pelliccia, protagonista della vicenda, l’articolo di DIEGO LONGHIN dal titolo “Incinta di 9 mesi, fermata e appiedata dai vigili per un fermo amministrativo” pubblicato sul sito web di Repubblica.
“Non sono valse a nulla nemmeno le richieste di aiuto, tra ansia e pianti, della donna – scrive il giornalista – per trovare una soluzione in modo da non rimanere su un marciapiede sotto il sole, mentre l’auto veniva caricata su un carro attrezzi”. “Piangevo sola in mezzo alla strada – racconta la donna – e loro mi hanno detto: prenda un taxi. Non chiedevo favori, ma solo un po’ di umanità. Sono rimasta in largo Giachino carica di oggetti tolti dalla macchina portata via”.
Il mostro, anzi i mostri, sono serviti. Due agenti che nel corso del loro servizio alla guida dell’autodetector che ha individuato la targa del pick up di cui era alla guida la signora Pelliccia nella “black list” – la lista dei mezzi sottoposti a fermo amministrativo –, hanno avuto la sfortuna di imbattersi in una donna al nono mese di gravidanza e nell’informazione offerta da un giornalista che si è basato soltanto sulle dichiarazioni della donna. Gli ingredienti per la spettacolarizzazione ci sono tutti: le lacrime, la disperazione e due agenti senza cuore capaci di abbandonare una donna incinta sotto il sole, rispondendole che per quanto li riguarda può anche prendersi un taxi per tornare a casa.
Perché chiedere chiarimenti, aspettare esiti investigativi o giudiziari o eventuali misure disciplinari, quando bastano poche righe per condannare qualcuno? Inutile dire che i due agenti a seguito della segnalazione della vettura da parte del radar, avevano l’obbligo di intervenire. Così come è inutile evidenziare che si sarebbe potuta chiedere subito – come è avvenuto invece successivamente – la versione dei fatti al Comando dei Vigili Urbani. No, molto più facile e di sicuro effetto narrare l’accaduto limitandosi nell’immediato alla versione data dalla donna ben diversa da quella del Comando, secondo il quale gli agenti avrebbero dato tutta l’assistenza alla signora che non ha manifestato alcun disagio né alcuno stato di agitazione, non abbandonandola e rendendosi disponibili, qualora la stessa non avesse avuto conoscenti in grado di raggiungerla, di farsi carico di trovare una soluzione per il suo rientro.
L’ennesimo processo mediatico. Un processo che ha per protagonisti due agenti additati alla pubblica riprovazione. Del resto perché non dare all’opinione pubblica quello che la stessa chiede? Perché far proprio quello che sosteneva Orwell (se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire – George Orwell) quando il pubblico vuole il “mostro” in prima pagina? E se non ho il responsabile della trattativa Stato-mafia, perché non offrire ai lettori un’immagine negativa degli appartenenti alle forze di polizia utilizzando la storia narrata da una delle parti in causa?
Che importa se è vero o meno, la condanna mediatica non comporta una pena detentiva da scontare, non comporta un ammenda da pagare. Ma quanto incide nella vita di questi uomini? Con quale coraggio guarderanno gli altri negli occhi dopo che li presentiamo come esseri insensibili, capaci di lasciare sotto il sole – a 60 chilometri da casa – una donna al nono mese di gravidanza?
Forse a tutto questo quando scriviamo non pensiamo neppure. Così come non pensiamo a quello che scriviamo, tutte le volte che ci rivolgiamo ad un agente perché difenda i nostri diritti. Perché intervenga in nostro aiuto, anche se questo lo espone a rischio della vita.
gjm