Perché chiamare “terrorismo” il risultato di quello che noi pacifici e civilissimi cittadini costruiamo giorno dopo giorno con il nostro incitamento all’odio e alla violenza, contro l’omosessuale, l’ebreo, l’americano, l’israeliano, il diverso?
Due passi in strada, una visita al museo, e muori. Muori soltanto perché qualcuno ha deciso che sparare contro i visitatori del museo ebraico di Bruxelles era la cosa giusta da fare. Un “atto terroristico” lo ha definito Yvan Mayeur, sindaco della città, mentre il ministro dell’Interno Joëlle Milquet non esita a definirlo “un atto antisemita”.
Un uomo arriva, parcheggia in doppia fila, scende due sacche dall’auto, apre il fuoco contro i passanti, entra dentro il museo e spara. Tre morti e un ferito. La storia è questa. Adesso saranno le indagini a dirci chi era l’attentatore o gli attentatori, se era legato ad un’organizzazione terroristica, se dietro il suo gesto c’è un movente politico. Già, ma i morti? Poveri disgraziati che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Diciamoci la verità, di chi fossero o del perché sono morti importa poco. Gli episodi di antisemitismo in Europa sono sempre più frequenti, ma ce ne accorgiamo soltanto dinanzi a fatti come questo. Come sempre più frequenti sono gli episodi di odio razziale contro chi ha un colore della pelle diverso dal nostro. Eppure ci sentiamo tutti innocenti. La colpa è soltanto di chi impugna un’arma e spara, di chi aggredisce fisicamente un uomo, di chi lo ferisce, di chi lo uccide.
Del clima di odio che serpeggia in tutta Europa, dei toni violenti usati da provocatori che per ragioni politiche utilizzano il verbo per alimentare un odio profondo e ingiustificato che trova nella crisi economica l’humus ideale per attecchire, di questo non ci accorgiamo neppure.
Dalla Francia all’Italia, al Belgio, alla Grecia, è un proliferare di movimenti populisti, xenofobi, estremisti, i cui risultati sono quelli che vediamo oggi. Al terrorismo organizzato e ben strutturato, quale può essere quello di al Qaeda, si aggiungono gli episodi più o meno voluti da chi utilizza i media per diffondere un messaggio politico intriso di violenza e odio contro i propri avversari, contro chi ha una diversa opinione, contro chi ha un diverso colore della pelle o una diversa fede religiosa.
Facili stereotipi utilizzati per schermire gli “altri”. Sei nero? Allora nel darti dell’orango tango o nel lanciarti una banana, che male c’è? L’ebreo? Piccolo, riccio, con gli occhialini e tutto preso a contare il suo denaro. Magari ingobbito e brutto. Che importa se poi gli ebrei sono anche biondi o rossi, se non sono di piccola statura e neppure ingobbiti? Chi può negare che siano i padroni dell’economia mondiale ai quali si deve la catastrofe? L’alta finanza americana non è forse controllata dai figli di David? Ed ecco trovata anche la giustificazione all’antiamericanismo. Se poi l’economia cinese supera quella americana, non ci sono problemi, riusciremo a trovare anche lì una improbabile comunità ebraica alla quale addossare le colpe.
Se in Italia si apre la caccia più o meno virtuale (basta leggere i commenti sui social network per rendersene conto) al migrante, al meridionale, all’ebreo o all’americano, in Francia, dove gli ebrei devono avere ancora più paura, la xenofobia qualche vantaggio per le popolazioni di colore lo offre. A condizioni che si tratti di maschi e neri. Già, il nero fa paura. Ce lo insegna la storia e ce lo insegnano persino le favolette per i bambini. Il lupo nero, l’uomo nero, tutto ciò che è brutto e spaventoso è nero. Persino un micino, al quale non si può dare certo una connotazione di ferocia, viene trasformato grazie alla superstizione in qualcosa di pericoloso e malefico.
Il nero fa paura. Ed è questo quello che evidentemente devono pensare i francesi. È infatti sufficiente fare un giro per i negozi, per accorgersi di come gli uomini della sicurezza siano tutti di colore. Di colore? No, neri. Neri, che quanto più nero non si può. Non fa paura un omone bianco di quasi due metri, con un fisico da culturista e lo sguardo truce. Quantomeno non ne fa più di quanto non ne faccia un uomo di colore. Certo, se alto e muscoloso ancora meglio, ma in mancanza anche uno mingherlino e non molto alto va pure bene. Purchè sia nero. Nero come l’ebano. Niente francesi, arabi, slavi o altro. Gli uomini della sicurezza dei negozi sono neri. A volte, mentre li osservo, mi viene persino il dubbio che qualcuno di loro, magari di carnagione un po’ più chiara, possa ricorrere al cerone nero pur di salvaguardarsi il posto di lavoro…
Potrei usare il cerone, farmi nero e vedere che effetto fa. Ma i tratti somatici mi tradirebbero. E se indossassi la kipà? Eppure, non sono ebreo. Vorrei indossarla per sentirmi vicino a quanti in questo momento subiscono l’odio e la violenza da parte di chi senza motivo aggredisce un uomo che non gli ha fatto nulla. Vorrei farlo per sentire su di me l’odio che suscito e capirne le ragioni. Poi ci ripenso. Sono nato in America, figlio di una cittadina americana. E se sono americano, non sarò anche ebreo o comunque responsabile di quello che fanno gli ebrei dell’alta finanza? Non mi basta già quest’antiamericanismo così diffuso per sentire un odio del quale non ho colpa? E se dicessi che i miei nonni erano ucraini? Sarei certamente etichettato come nazista… Per completare potrei aggiungere che sono siciliano. Quindi sicuramente mafioso. Un trucco che però non funzionerebbe visto che di mafia scrivo per combatterla. Se non sono mafioso, mi accontenterò di essere chiamato “teron”… Qualcuno sa dirmi come si dice “teron” a Parigi?
E mentre cerco l’etichetta da cucirmi addosso, penso all’incitamento all’odio contro gli ebrei, gli americani, gli israeliani, gli omosessuali, i neri, i meridionali, i rom, che imbonitori e pagliacci quotidianamente alimentano con i loro discorsi. A cosa ci porterà tutto questo? Il prossimo olocausto quando avverrà?
Gian J. Morici