Il (millantato) credito che il politico di turno ad ogni competizione elettorale chiede (e ottiene) con gli elettori, il più delle volte risulta immeritato ed inutile. Lo dimostrano le alterne vicende della politica che non mantiene le promesse. Nel nostro Paese, il più delle volte, con chiunque al potere, gli italiani ci hanno spesso rimesso. Ma non volendo mai rinunciare al desiderio che le cose mutino e portino gradualmente a soluzione le difficoltà degli italiani, vogliamo sperare che il governo in carica continui il suo percorso verso l’attuazione delle riforme. Proprio per dar corso a questo impegno il Premier Letta, di fronte alle recenti fibrillazioni dovute a Matteo Renzi per il disagio manifestato su La Stampa verso il governo, alle accuse dei partiti anche per il decreto mille proroghe, ha lasciato correre: “Tutto voglio tranne che farmi trascinare in polemiche giornaliere e personalistiche. Decideremo tutto insieme a gennaio, nel contratto di coalizione…ma adesso mettiamoci uno stop”.
Il contratto di coalizione dovrebbe consentire ai partiti della maggioranza di raccordarsi, di stabilire un percorso ben definito, di approfondire i provvedimenti da attuare, tempi e modi per giungervi, di mettere al riparo il governo dalle fibrillazioni quotidiane, dal “fuoco” amico e nemico. Ma, in politica, non sempre un contratto consente di arrivare agli obiettivi. Perché non viene rispettato. Alla fine, si tramuta in un boomerang per chi lo promuove. La parola contratto evoca alcuni ricordi che non sono stati positivi, e che forse lo sono stati solo inizialmente. Il contratto con gli italiani, sottoscritto da Silvio Berlusconi nel 2001 nella trasmissione “Porta a porta” di Bruno Vespa, che suscitò tanto clamore, era lastricato di buone intenzioni. Vinse con i suoi alleati quelle elezioni, governò per un lustro, ma non portò a casa le riforme per raddrizzare “la barca”. Furono accampate ragioni legate alla crisi economica internazionale, ma non vi fu cesura dellaspending review, il debito pubblico non fu ridotto, il Pil si attestò su posizioni stagnanti, fu varato (2005) il “porcellum”, il potere della conservazione inibì il processo riformatore. Quel governo portò all’elezione della coalizione guidata da Romano Prodi (2006). E anche Salvatore Cuffaro, aspirante governatore della Sicilia dell’epoca, a mezzo stampa, sottoscrisse un contratto coi siciliani. Ma non mutò le loro esigenze, e la vicenda giudiziaria che lo ha ristretto nelle carceri di Regina Coeli, ne ha aborrito l’operato e quel contratto foriero di grandi mutazioni.
I contratti in politica, come i nostri politici, pare siano poco credibili. Senza volere accomunare il contratto di coalizione di Letta per il 2014 a quelli di Berlusconi e Cuffaro, speriamo solamente che con questo nuovo anno possa affermarsi la buona politica.
Nel marasma quotidiano a cui ci hanno abituato buona parte dei nostri rappresentanti, ci pare onesto rendere merito al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il contratto con gli italiani, per le funzioni che gli competono, ci sembra lo abbia sempre rispettato, almeno per cultura istituzionale. Per i detrattori di turno, sosteniamo che un presidente non può essere “buono” o “cattivo” a secondo dei momenti in cui torna utile o deleterio. A Cossiga, per essere stato silente per i primi cinque anni del suo mandato lo chiamarono il “sardomuto”, a Napolitano, per l’inettitudine di una classe politica che lo ha pregato di restare, lo dovrebbero chiamare il “salvatore”, con il dovuto rispetto a Nostro Signore Gesù Cristo.
Rogero Fiorentino