Non è la prima volta che mi ritrovo a riflettere su certi articoli o immagini che mettono in bella mostra momenti tragici della vita. Gallerie di incidenti mortali, cadaveri coperti da lenzuola, sangue e tracce organiche di vario genere. Articoli che narrano di suicidi entrando nei dettagli e spiegando ragioni che spesso nella realtà finiscono con il restare ignote.
L’informazione non può avere limitazioni altrimenti non è informazione. E su questo non si può che essere d’accordo. A volte le immagini scioccanti possono trovare una spiegazione nel tentativo di far emergere verità nascoste, di sensibilizzare. E quella, seppur utilizzando lo strumento della provocazione eccessiva, è informazione. Dietro a servizi volutamente provocatori spesso ci sono professionisti che studiano e lavorano per mesi, a volte mettendo a repentaglio anche la propria incolumità.
Posso dunque tollerare e riconoscere come giornalismo la raffigurazione di una condizione, anche di sofferenza, ma che abbia comunque un fine sociale. Un fine che certamente non può essere quello di aumentare il numero di lettori attratti da una curiosità sadica che, come quella di chi diffonde le immagini, meriterebbe certamente un’indagine psichiatrica.
Che giornalismo è? Quali coscienze vorrebbero scuotere certe immagini? Quali verità nascoste vorrebbero fare scoprire?
Oggi ennesimo caso di suicidio. La notizia è riportata da molti quotidiani, fortunatamente non da tutti. Chi pubblica la notizia, lo fa in maniera corretta e riporta in breve un fatto di cronaca. Ma c’è anche chi, con una leggerezza deontologica impressionante, pubblica gallerie fotografiche del triste evento, incurante della sofferenza che le immagini possono provocare ai familiari della vittima e del rischio (secondo le ragioni che hanno dato luogo all’evento e il possibile reiterarsi della pubblicazione di notizie e immagini di questo genere) di un possibile effetto Werther di emulazione.
Chi ha avuto la brillante idea di pubblicare le immagini, avrebbe fatto la stessa cosa se si fosse trattato di una persona appartenente alla propria sfera affettiva? Di chi è la responsabilità della pubblicazione di talune immagini?
Sorvolo sulla prima domanda visto che la risposta sarebbe fin troppo ovvia. Fotografi e giornalisti realizzano i servizi che i loro direttori di testata richiedono. E sono per questo pagati. Certo, si può anche scegliere di non portare al macero la propria coscienza, ma sono scelte che non tutti sono disposti a fare.
I direttori di testata dovrebbero rispondere a etica professionale, coscienza personale, buon senso, ma non tutti possiedono queste doti. Il pubblico vuole sangue e dolore? Io lo fornisco e poco m’importa di quanto altro dolore causo a chi già ne ha subito.
Nella speranza che un giorno possano cambiare queste leggi di mercato, lasciatemi esprimere un’opinione:
In realtà non esiste il giornalismo, esistono gli uomini, siano essi giornalisti, artisti, professionisti, impiegati o imprenditori. Ci sono poi gli sciacalli…
Gian J. Morici