Paola alzò lo sguardo, ma soltanto per guardare fuori, in cerca di una via di fuga ai miei occhi che continuavano ad indagarla.
“E’ più forte di me. Insegno ai bambini a fidarsi, a lasciarsi andare, è fondamentale nelle emergenze credere che ci sia qualcuno che ci salverà, che sarà lì a prenderci mentre cadiamo, che ci aiuterà a venirne fuori, eppure io proprio non ci riesco.”
Non so perché annoto queste cose. Non ne capisco il senso. Non sono un medico, uno psicologo, un analista e probabilmente, anzi sicuramente, non sono in grado di aiutare Paola, e prendere nota di questi nostri incontri “terapeutici”, è così che li ha denominati, visto che esulano da tutto l’altro tempo che passiamo insieme, di sicuro non cambia la sostanza dei fatti. Lei non lo sa neanche. Che quando va via annoto tutto. Giorno, ora, inizio e fine dell’incontro, esercizi ed esiti, negativi sempre, parole, gesti, sguardi, soprattutto sguardi, e la resa finale. Invariabile.
Non so neanche perché non le ho detto che lo faccio, non credo avrebbe qualcosa in contrario, forse mi prenderebbe in giro, forse no, forse le farebbe bene rileggersi, o piuttosto le farebbe male, visto che a rileggerle queste mie note sono tutte uguali, non cambia nulla, tranne la data, non è cambiato nulla; forse non l’ho fatto solo perché non so perché lo faccio.
All’inizio, quando me lo chiese, quando mi chiese se volevo aiutarla, mi sembrò quasi un dono, un privilegio, un onore anche; forse in parte è ancora così, e la mia meticolosa cura nel conservare incasellare catalogare etichettare questi nostri incontri perché alla fine possa – possiamo – leggervi qualcosa, un miglioramento, un cambiamento, un segno, non è che una sorta di riconoscenza per essere stato scelto. Insomma mi sembrò che chiedere aiuto a me fosse in qualche modo un affidarsi, un dire implicitamente Di te mi fido. E in realtà è ancora così perché è con me e solo con me – almeno credo – che ha scelto di provare a fidarsi, insomma di esercitarsi a farlo. Solo pensavo che fossi solo io a saperlo, di questo suo “problema” e dell’ansia che le mette dentro. Invece non è così. Non è così perché Paola non è una che si nasconde o che si maschera, e alla fine che è una che non si fida e non si lascia andare te lo dice in faccia, anche mentre sembra che ti sta concedendo tutto, l’impossibile e l’impensabile, perché lo fa, te lo concede, ma è dentro che si blocca qualche cosa, che non lo sa neanche lei cos’è, ma c’è, come una porta, un muro, un baratro, un abisso che ti taglia fuori. E tu sei lì, di fronte a quel castello, disarmato, perché le armi le hai messe via che lei ti ci ha portato a farlo, a disarmarti, perché non si è nascosta, anzi, e ha aperto porte e messo fiori sui sentieri e steso ponti sopra i fiumi e scale sicure ed è tutto vero, non ci sono trucchi, giochi, menzogne, eppure. Eppure quando hai visto tutto e lo desideri e lo ami, quello che sai è che non puoi averlo, che non sarà mai tuo, che non potrai toccarlo. E cadono i ponti, crollano le scale, si chiudono le porte, seccano i fiori. E Paola c’è ma resta dentro e non lo sai se vuole uscire, neanche quando tende le mani, che non sai se sono tese per cercarti o per cacciarti via.
“Mi fido solo di me.”
Il che poi in fondo non è male, come pensiero. Ed è maturo. Che siamo soli e questa è una sacrosanta verità.
Se poi non fosse che succede, nella vita, che hai bisogno di tendere una mano a cercare aiuto e non a darne, e a crederci a quella mano tesa verso la tua, o almeno a provare a farlo, a sperarci.
Paola non spera.
Non crede, non chiede aiuto.
Ti tende la mano, mille e mille volte. Se tu la tendi a lei, forse, forse la prende. Ma non lo fa convinta, non si abbandona, mai.
Paola si occupa di sicurezza e gestione delle emergenze. Nelle scuole, con i bambini e gli adolescenti, organizza corsi interdisciplinari finalizzati alla conoscenza del territorio e dei rischi cui è soggetto, che la conoscenza è il primo passo verso la sicurezza, delle modalità di intervento ed azione ai vari livelli, dalle strutture statali al singolo individuo, e in particolare dedica diverse ore agli esercizi di rilassamento, necessari a controllare l’ansia in situazioni di pericolo, e di role-playing. Qualche volta sono andato con lei. Molte volte. In veste di cavia dovrei aggiungere. Nel senso che in questi esercizi succede che i bambini, i ragazzi, oltre ad acquisire fiducia nel proprio corpo e nei propri limiti e capacità, devono acquisire sicurezza e fiducia negli altri, nei compagni, il cui supporto potrebbe rendersi necessario in emergenza. Il che significa per esempio imparare a lasciarsi cadere all’indietro sapendo che ci sarà qualcuno pronto a sostenerti. Ecco, io faccio quello che cade. Sarebbe più logico lo facesse Paola, che pesa trenta chili meno di me e che per quanto forte e ben allenata a guardarla si direbbe che basti un po’ di vento a portarsela via. All’inizio mi diceva Fa più effetto, se cadi tu e io ti prendo. E vale doppio. Tu ti fidi, nonostante non sembra possibile che io possa farcela, ed io acquisto fiducia nelle mie capacità.
Nel tempo – perché dovrei aggiungere che è tanto tempo che io e Paola ci frequentiamo, è tanto tempo che siamo amici, anzi tantissimo, è tanto tempo che condividiamo tutto e più di tutto, dopo aver pensato per un breve periodo di poter condividere anche altro, ma si vede che per quello non ci eravamo tagliati, o io o lei, o entrambi, ma questa è un’altra storia – mi accorsi che lei non cadeva mai. Nel senso di far la cavia al posto di quello che cade, io, invece di quello che sostiene, lei; che di cadute nella vita, metaforiche e reali ne ha fatte e tante. Come tutti. Così finii per chiederle perché.
“Non posso farlo. Io non mi fido.”
Lì per lì rimasi senza parole. O forse senza fiato. Come per un pugno allo stomaco più o meno. Insomma non per il senso ampio della cosa ma proprio per orgoglio credo. Io cadevo tranquillamente coi miei novanta chili tra le sue esili braccia almeno sei volte l’anno e lei non si fidava a lasciarsi andare tra le mie.
Il senso della cosa poi fu anche peggio. Cioè io, l’amico del cuore, quello delle nottate a raccontarsi e a leccarsi le ferite, quello del ci sarò sempre – e sempre ci sono stato, che non l’ha mai chiesto, vero, ma ci sono stato – quello della sincerità e della certezza, Io non mi fido, io non posso lasciarmi andare.
Così, uguale a come lo diceva, perché lo diceva, agli uomini con cui finivano le sue storie, a quelli che passavano nella sua vita o che c’erano sempre stati, ai familiari, a tutti. Non mi fido. A me che mi ero preso tutto. Il bello e il cattivo tempo, il sole e le tempeste. Il gioco era solo l’apice. Di una montagna che non avevo mai scalato.
Inutile dire che ci volle tempo per riprendermi. O per comprendere. Per tornare io a fidarmi. Mi sentivo tradito. Come se tutto quello che eravamo stati, che ci eravamo detti, che ci eravamo dati fosse imploso, tornato indietro, sì, restituito, anzi forse mai partito, o no, partito era sicuro che lo fosse, ma poi era rimasto lì, sospeso, in una specie di anticamera, che anche quello che mi dava lei restava lì, ed era lì che mi investiva o mi accarezzava o mi cullava se oltre quel posto io non c’ero mai potuto andare e allora neanche lei da lì era mai uscita e non mi aveva incontrato mai.
Fu lei a cercarmi. Mentre ancora ero lì a chiedermi se mai lo aveva fatto, sapendo che era successo e tante volte, ma che ero sempre io che poi gliele tiravo dalla bocca le cose, o dalle mani, o dalla pancia, da dove se le nascondeva. Mentre ero lì a ripercorrere con la memoria me e me soltanto e i miei presunti errori se mai ne avevo fatti.
“Tu non c’entri. E’ tanto che me lo porto dentro. Io non mi ricordo se c’è stato un tempo in cui era diverso. E se tu non lo sai è solo perché a te non ho dovuto dirlo, che non me lo hai chiesto di fidarmi, che non mi hai mai ferito. Non farlo adesso.”
Non farlo adesso. Non ferirmi? Paola sono io che sanguino. Non chiederti di fidarti? Tu lo chiedi a me. No, vero, non me lo hai chiesto mai.
Mi sono tornate in mente quelle notti brave a scamazzarci di alcol da ragazzi. Certo che lo facevi anche tu, come tutti, e anche tu ci stavi male di brutto dopo, anzi tu peggio, non ti finiva mai.
Perché tu non ti abbandonavi mai. Tu non chiudevi gli occhi. Tu non ti accasciavi sul divano o sul tappeto, non ti abbattevi, non ti lasciavi andare, no, tu restavi sveglia, gli occhi sbarrati finché non ti passava. Che ti sarebbe passato mille volte prima se crollavi, ma. Ma tu ci dovevi stare. Per sostenerti.
Poi non lo so cosa è successo.
“Proviamoci. Voglio provarci. Sei l’unico con cui posso provarci.”
Non mi hai chiesto aiuto in realtà. Neanche questa volta. Diciamo che è stato come se. Ed è stato abbastanza.
Quello che è tosto è il patto. Noi ci vediamo e stiamo lì. Minuti, ore, in cui mi dai le spalle e io resto immobile, dietro di te, e tu provi, senza riuscirci, a lasciarti andare, a lasciarti cadere tra quelle braccia che sai bene, perché lo sai, che ci saranno sempre.
In silenzio.
Il patto è questo.
Perché io so che una volta ti sei fidata. Ciecamente. Sapendo che avresti sofferto. E sapendo che hai sofferto ti fidi ancora. Perché niente ti ha deluso, perché tutto è stato come ti aspettavi. Quasi tutto. Perché il resto, che poteva essere, tu non lo hai guardato. Allora, mentre lo inventava lui.
Perché io so che anche se non ti sei mai fidata di delusioni ne hai avute. Tante. Troppe. Per una di cui ci si può fidare. Anche se non lo chiede mai, di fidarsi, anzi.
Perché io so che di te troppi si sono fidati e troppo presto. E che quella fiducia per te tante volte è diventata un macigno, sul cuore, sulle spalle, sulle gambe, a toglierti la forza di respirare. Responsabilità e dovere, anche sopra l’amore.
So anche che sai cadere da sola. E che sei brava.
Se c’è dell’altro non lo so. E il patto è che non posso chiederlo.
In silenzio aspetto che cadi.
Che impari a credere, a sperare che ci sia qualcuno a prenderti, non a farti male.
“Non posso, io non ci riesco.”
Ti giri, alzi lo sguardo. Ma è solo per guardare fuori, in cerca di una via di fuga.