La cosa più magica della notte è che basta un interruttore a cambiarti il mondo negli occhi in un attimo. Un mondo piccolo quello sotto una lampada, poco più di un vestito. Che come un vestito può starti bene, può starti male, comodo, stretto, diverso ed uguale; puoi indossarlo o lasciarti indossare.
Accesa. Spenta. Accesa. Spenta.
Non è la stessa cosa che chiudere e aprire gli occhi. No, l’effetto è diverso. Occhi aperti sei fuori, occhi chiusi sei dentro. E fuori non esiste se non come vuoi costruirtelo tu. No. Luce accesa occhi aperti, luce spenta occhi aperti. E tutto rimane là, immobile, intorno, che sai a memoria dove tutto si trova da anni come le braccia, le gambe, le ossa, la pelle, ma è tutto diverso. Tu no.
Accesa. Spenta. Accesa. Spenta.
Anche i suoni non cambiano.
Tic, tac. Orologi frenetici. Di giorno non li senti. Non li senti e non li guardi, come il calendario che non giri le pagine che tanto non cambia niente. Di notte si sentono. E si sente la fontana che scorre che non si può riparare si deve cambiare. Plick, plick. Sì perché la metti in modo che la goccia cada a filo del bordo, nella curva del fondo, dove fa meno rumore e non schizza. Basta spostarla un pochino però e allora anche il suono può cambiare, lasciarla cadere nel centro o su un piatto o dentro un bicchiere che piano si riempie. Plock, plock. E gli orologi li puoi fermare. Proprio come hai fermato il tuo tempo.
Accesa, spenta, tra poco l’alba ti ruberà il gioco. Accesa, accesa, accesa. All’alba c’è solo il suono del cuore che batte più forte di ogni rumore che puoi sempre cambiare, fermare, spezzare.
“Tu sei proprio una che si fa rivoltare il cuore come un cuscino quando d’estate fa caldo e si suda.” “Lo sapevo che lo avresti detto.”
Lo sai. Lo sai che non cambi ci hai provato a cambiare. A chiudere gli occhi, a non ascoltare. A tapparti il naso, a non respirare. A difenderti il cuore a non farlo toccare. Acceso, acceso, acceso. Come la luce del giorno; come quella fontana che non si può riparare, come il caldo d’estate che ti fa sudare.
Ieri era freddo. Fuori. E avevi freddo dentro di un dolore nuovo che volevi fermarti e ascoltare. Di un pezzo di vita bambina che mano a mano la vita ti viene a rubare. Di una tavola in legno, le panche, di voi bambini seduti a giocare. Raramente. Domenica sempre, che abitavate lontani. Che a pensarci oggi lontano può essere forse al di là del mare. Ed eravate allora davvero vicini. A pensarci oggi vicino può essere qui da sotto il portone che non hai voglia adesso di salire le scale. E vicino diventa lontano, con questo sacco enorme di pietre che ti ostini a portare.
Non sei voluta andare. A stringere abbracci e lacrime a non farle vedere, a tenerle sul cuore, So piangere solo da sola.
Per strada magari, in mezzo alla gente. Quando c’è così tanto rumore di fuori che per fare silenzio il tuo cuore si mette ad urlare e sei nuda, senza vestito, le braccia le gambe le ossa la pelle lontane, e non c’è interruttore. Accesa.
Così pensi ai vecchi. Ai vecchi – cuori in silenzio – che si abituano alla morte che la morte è normale. Devi essere vecchia da un tempo infinito e tua madre deve essere invece bambina se piange e sta male. E le lacrime le sa scambiare. Tu no. Ieri eri stanca e ti volevi fermare.
Hai raccolto il sacco e lo hai trascinato contro voglia su per le scale – dovevi tornare – e non ricordavi che pesavano tanto le parole. Più dei sorrisi, dei baci, di mani, di sguardi, di capelli nuovi da accarezzare. Di due donne che piangono ad un funerale. Di un amore finito, di un sogno spezzato, di un ricordo da troppo dimenticato. Le tieni lì insieme, il sacco si riempie da solo, le parole che affollano il cuore. Le parole sulle tue spalle, sopra la schiena, sopra ogni cosa che hai visto e guardato, che spingono, pressano, chiedono spazio che nel tuo vestito non ce ne può stare. Le parole hanno fretta, prepotenti e arroganti, si impongono, si sovrappongono. Quando arrivano che tu le raccogli le annusi le guardi le lasci giocare sono tutte diverse. Ci sono quelle che sanno di sale che solo a guardarle fa male; quelle leggere che per farle restare le devi inseguire e poi catturare; quelle d’amore, che ti accarezzano, hanno dita di seta per scivolare che a provarle a fermare diventano amare; ci sono parole vestite di fiori che celano unghie ed artigli ed uncini dai quali poi non ti puoi liberare; ci sono quelle da farci sesso, da violentare, da berci sopra, da farci canzoni; quelle che è facile dimenticare. Tante parole fanno rumore. Più della gente, più del dolore. Ci pensi adesso sopra le scale che eri stanca e ti volevi fermare.
Dentro quel sacco che ti ostini a portare le parole diventano uguali. Grigie e pesanti senza colori e non serve più a niente tirarle fuori. Di tutto il tempo passato a pensare, a dividere, a catalogare, conservare per imparare, per difenderti, per non farti ferire, non resta che un peso lì sulle tue spalle che ti impedisce di riposare. Accesa. E nuove parole che non sai ritrovare ti rivoltano il cuore. Mani aperte ancora a comprendere e a perdonare.
Plick, plick. La fontana che gocciola e non si può riparare si deve cambiare. Plick, plock se la sposti e ci metti un bicchiere. Che si riempie come il tuo cuore.
Chiudi l’acqua stanotte e ascolta il dolore, spenta. Finalmente si fermano le parole.
Cinzia Craus
Dedicato a mio zio. Che avrà grossi baffi e la parlata toscana per sempre. Che più che parlare alzava lo sguardo a guardarti e già ti veniva da ridere. Che non aveva il mio sangue e che forse io allora non c’entro niente. Che forse nessuno lo sa, ma io gli volevo bene. E sarà naturale ma comunque fa male.
Bello, Brava! e speriamo che il commento parte!!
più bello del solito. Tanto bello che ho bisogno di rileggerlo. anche se non riesco a trovare la sottotraccia. Forse proprio perchè non so trovare la sottotraccia, e allora ci metto quello che voglio