E’ noto che il D.lg.vo 121/2011 ha dato attuazione – anche – alla Direttiva 2008/99/CE, che si propone come obiettivo la tutela dell’ambiente naturale e delle specie animali e vegetali protette. II decreto ha introdotto la nuova fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 727 bis c,p. che, sotto la rubrica “uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette”, sanziona “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque fuori dai casi consentiti, uccide, cattura, detiene esemplari appartenenti ad una specie animale selvatica protetta … salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari ed abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”. Deve escludersi che la nuova disciplina sia idonea a precludere l’applicazione del c. d. “furto venatorio”, per cui è processo.
La presenza della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” è invero di per sé sufficiente a far prevalere fattispecie interferenti punite più severamente, quale è, senza dubbio, l’ipotesi del furto, laddove è pacifico che la fauna selvatica resta pur sempre patrimonio indisponibile dello Stato.
Non è revocabile in dubbio che la clausola di riserva operi nel senso cennato ove si ponga mente, tra l’altro, ad alcuni aspetti della legge sulla caccia (l. 157/92, cit.), tuttora pienamente vigente. La legge n. 157/92 ha espressamente escluso l’applicabilità degli artt. 624, 625 e 626 c.p. nei casi disciplinati dall’art. 30 prima parte e 31, stessa legge. Si tratta di fattispecie penali che la giurisprudenza di legittimità ha costantemente interpretato come applicabili ai soli casi in cui l’autore della condotta sia il titolare di licenza di caccia (la quale rende lecito un comportamento altrimenti non consentito); la mancanza dell’abilitazione, invece, fa scattare la responsabilità per furto venatorio (vedi per tutte Cass. pen., sez. IV, 27.5.2044; n. 24352). Si noti che le condotte descritte dalla nuova norma di cui all’art. 727 bis c.p. sono pressoché coincidenti con quelle dell’art. 30 l. 157/92 (che alla lettera b sanziona chi “abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli” appartenenti a specie protette). La presenza della clausola di salvaguardia, e l’assenza di un’espressa esclusione dell’applicabilità della disciplina del furto (come è nel caso della legge sulla caccia) rendono evidente come il c.d. “furto venatorio” sia pienamente configurabile nel caso di sottrazione al fine di profitto di fauna protetta costituente patrimonio indisponibile dello Stato.
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Un’ importante sentenza di condanna della Terza sezione penale del Tribunale di Torino interviene su due concetti giuridici di primaria importanza nel contesto degli illeciti penali in materia di caccia abusiva: il rapporto tra il nuovo art. 727bis del Codice Penale ed i reati previsti dalla legge in materia venatoria e la disciplina del “furto venatorio” (compresa la ricettazione).
Per ambedue i principi viene totalmente confermata la linea interpretativa da sempre seguita e sostenuta dalla LAV e da “Diritto all’ambiente” (pur se contestata da diverse altre prese di posizione).
Ma vediamo di cosa si tratta nei dettagli e quanto è importante questa sentenza come principio generale che può essere applicato in molti altri casi, al di là del fatto specifico del quale si occupa la pronuncia in punto di fatto.
Infatti detta sentenza (che riportiamo in calce, e che ci è stata gentilmente fornita dalle guardie volontarie del WWF Italia) chiarisce un fondamentale principio in materia di rapporto tra norme alla luce dell’innovazione legislativa di cui al Decreto legislativo del 7 luglio 2011, n 121 che come è noto si occupava, o almeno avrebbe dovuto occuparsi, del recepimento della direttiva comunitaria in materia di tutela penale dell’ambiente, varata dal legislatore comunitario per rafforzare la disciplina di contrasto contro i fenomeni di aggressione all’ambiente considerato nel suo complesso, ivi compresa la biodiversità.
Sulle pagine di questa testata giornalistica on line e sul sito della LAV numerosi sono stati i commenti critici sul citato provvedimento normativo, a parere di chi scrive assolutamente non in linea con il dettato e gli obiettivi comunitari, in quanto le sanzioni così come previste nel testo approvato (ammenda ed arresto alternativi sono disgiunti) sono infatti oblazionabili ai sensi degli art.li 162 e 162 bis c.p. (con la metà del massimo della pena prevista dall’ammenda).
E questo mentre uccidere un singolo animale (non protetto!) comporta due anni di reclusione ai sensi dell’art 544 bis c.p.
Ragion per cui oggi catturare o abbattere una quantità non trascurabile di specie protetta in base all’art 727 bis c.p. comporterebbe un mero costo in termini economici (anche piuttosto irrisorio) per un’attività illecita fortemente diffuse soprattutto in determinate località.
Si è pertanto da parte nostra sostenuto (sollevando anche critiche ed opposte opinioni) che, anche per dar seguito agli obiettivi posti dal legislatore comunitario di massima tutela della fauna selvatica oltre che per coerenza sistematica con l’intero quadro giuridico nazionale di protezione degli animali in generale, tale norma dovesse avere uno spazio più che esiguo di applicazione.
Rileviamo oggi che dello stesso parere è il Tribunale penale di Torino, che con la recente sentenza in commento, nel condannare un allevatore reo di aver catturato illecitamente ingenti quantità di specie protette per furto venatorio e non per la violazione dell’art 727 bis c.p. come aveva invece richiesto la difesa, rileva come alcuni “commentatori hanno rilevato che l’ambito di applicazione del reato con riferimento alla fauna selvatica sia alquanto angusto e dunque non tale da rafforzare in maniera significativa la tutela penale dell’ambiente animale siccome richiesto dalla stessa direttiva europea’.
Di conseguenza ragiona il Tribunale, anche grazie alla clausola di sussidiarietà espressa di cui all’art 727 bis c.p. ‘salvo che il fatto costituisca più grave reato’ il furto venatorio di cui agli art.li 624 e 625 c.p. risulta pienamente configurabile ‘nel caso di sottrazione al fine di profitto di fauna protetta costituente patrimonio indisponibile dello Stato.’
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Il processo traeva origine dalla citazione a giudizio di due allevatori di avifauna, imputati ‘L.S. per i reati di cui agli art.li 81,624 e 625 n 2 e 7 c.p. perchè privo della prescritta licenza di caccia, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ,ed in tempi diversi, al fine di trarne profitto per se valendosi di mezzi fraudolenti consistiti nel dislocare reti da uccellagione bacchette con vischio e trappole a scatto ovvero tutti strumenti da caccia non consentiti coi quali catturava584 specie di avifauna autoctona esposti per necessità alla pubblica fede, si impossessava della predetta avifauna sottraendola al patrimonio indisponibile dello stato’ e C.A. ‘per il reato di cui all’art 648 .p. poiché al fine di procurarsi profitto, acquistava dall’imputato specie di provenienza delittuosa in quanto provento di furto commesso dal predetto in danno dello Stato’.
La Procura concludeva per la condanna di entrambi gli imputati per i reati ascritti, mentre in particolare il difensore del L.S. allevatore imputato di furto venatorio, chiedeva la derubricazione del reato nella contravvenzione di cui all’art 727 bis c.p.
Detta derubricazione chiesta dalla difesa appare in linea con le teorie che contrastano la nostra interpretazione e sostengono la prevalenza ormai totale dell’art. 727bis nel campo degli illeciti venatori… Ma il Tribunale è stato di tutt’altro avviso…
Nel corso dell’istruttoria erano sentiti numerosi agenti di polizia giudiziaria nonché pubblici ufficiali appartenenti al nucleo antibracconaggio della Lida, il Corpo Forestale dello Stato, esperti del WWF Italia nonché alcuni consulenti tecnici tra cui ornitologi di fama internazionale che aiutavano ad individuare in particolare la provenienza illecita degli animali, in quanto catturati in natura. Emergeva così dal dibattimento che nel corso di un accertamento effettuato dalle guardie Lida presso il negozio di un soggetto presso cui si procedeva separatamente, venivano rinvenuti esemplari di avifauna con anelli identificativi di riconoscimento alterati provenienti dall’allevamento del C.A. Veniva quindi effettuato un sopralluogo presso l’allevamento indicato dove venivano rinvenuti numerosi esemplari di fauna protetta non identificati cioè privi degli anelli regolamentari, la cui provenienza risultava essere del coimputato L.S., titolare a sua volta di un allevamento di avifauna ad Aosta.
A tal proposito, rileva il Tribunale come il quadro della normativa in materia di allevamento di avifauna sia stringente, per cui gli esemplari provenienti da allevamento devono essere dotati di anello inamovibile il cui diametro è indicato dalla Foi (Federazione Ornitologica Italiana) da apporre entro dieci giorni dalla nascita, inoltre le nascite ed ogni altra operazione devono essere annotate su apposito registro di carico e scarico dell’allevamento, tutte operazioni non avvenute negli allevamenti analizzati. Pertanto, rileva il Tribunale, un primo indizio della provenienza illecita dell’avifauna ovvero della provenienza da cattura in natura è certamente l’assenza o l’irregolarità degli anelli. Infatti nel caso di specie gli esperti intervenuti nella qualità di consulenti avallavano pienamente questa tesi rilevando come anche per quanto riguardava il carattere, il piumaggio e le caratteristiche degli uccelli era evidente che questi provenivano da recente cattura. Sulla base di questi indizi la Procura delegava una perquisizione presso l’allevamento in questione, che veniva effettuata dalla p.g. in collaborazione con esperti del WWF, nel corso di cui venivano rinvenuti ancora una volta numerosi esemplari privi di anelli appartenenti a specie protetta, per cui i consulenti ancora una volta deponevano per la possibile cattura in natura, anche in base al comportamento e dall’aspetto cromatico degli animali. Venivano inoltre rinvenuti animali morti ed altri animali ‘morivano in quel momento’, mentre gli animali vivi rinvenuti, appartenendo alla fauna selvatica erano nel frattempo liberati.
Nel corso della perquisizione, oltre la mancanza degli anelli identificativi venivano individuate profonde irregolarità per la gestione generale dell’allevamento che risultava essere di fatto abusivo, in quanto il registro di carico e scarico non era in alcun modo compilato, poiché lo stesso imputato dichiarava candidamente che ‘non era sua abitudine annotare le specie animali’ .Venivano inoltre rinvenuti strumenti per l’inserimento di anelli oltre che gabbie trappole, reti per l’uccellagione, reti a scatto, nonché 30 bacchette cosparse di vischio, ovvero tutti strumenti vietati dalla legge 157 del 1992, adibiti alla cattura illecita di fauna selvatica. Nonostante la difesa avesse sostenuto che tali strumenti erano adibiti alla ricerca di topi dell’allevamento e non alla cattura di fauna selvatica, si evinceva dal sequestro probatorio delle reti e dalla relativa analisi, che le stesse erano certamente state utilizzate all’esterno dell’allevamento, posto che si rinveniva del fogliame di castagno e betulla, alberi che notoriamente non crescono in ambiente chiuso, inoltre le reti di cattura risultavano consunte dall’uso.
Tutti questi elementi, la mancanza di anelli identificativi, la mancata compilazione del registro di carico e scarico e l’assoluta irregolarità amministrativa della gestione dell’allevamento, i pareri dei consulenti tecnici sulle caratteristiche degli animali nonché il reperimento di mezzi di cattura vietati all’interno dell’allevamento, secondo il Tribunale deponevano in maniera univoca in qualità di indizi gravi precisi e concordanti come prova che l’avifauna rinvenuta apparteneva al patrimonio indisponibile dello Stato, integrando solidissimo quadro accusatorio.
Come se non bastasse, ulteriori elementi facevano presumere la provenienza illecita degli animali, ovvero il fatto che dal 2004 il L.S. non presentava il registro nascite alla Regione, inoltre da un attenta analisi della documentazione dell’allevamento risultava che lo stesso cedeva molti più esemplari di quelli che riceveva, ciò non potendo che far desumere l’acquisizione con modalità non corrette degli animali coinvolti.
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Essendo pacifica la natura selvatica degli animali presenti negli allevamenti, grazie alle accurate indagini della polizia giudiziaria e della Procura, con il prezioso supporto delle associazioni intervenute nella veste di guardie venatorie nonché consulenti tecnici, la difesa invocava l’applicabilità dell’art 727 bis c.p. ‘Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette’ come introdotto dal decreto n 121 del 2011, a parere della difesa norma più favorevole ed in rapporto di specialità con le norme di cui alla legge 157 del 1992 nonché a quelle sul furto venatorio.
Il Tribunale nel condannare gli imputati per furto venatorio e ricettazione rigetta pienamente tale argomentazione, ritenendola erronea.
Ed è questo il punto di principio di rilevante importanza della sentenza che riveste interesse generale al di là del caso concreto.
Secondo la sentenza in commento, infatti, deve escludersi che la nuova disciplina normativa (art 727 bis c.p.) ‘sia idonea a precludere l’applicazione del furto venatorio’, in quanto la clausola di riserva presente nella norma ‘salvo che il fatto non costituisca più grave reato’ di per se permette la punibilità per fattispecie coincidenti punite in maniera più aspra quale appunto il furto venatorio che oltretutto non è escluso espressamente così come invece avviene per la legge n 157 del 1992 (art 30 e 31). Altrimenti argomentando si comporterebbe un vulnus di tutela proprio ad un bene giuridico quale è la fauna selvatica che lo stesso legislatore comunitario ci chiede invece di tutelare in maniera più efficace.
Scrive il Tribunale:
“Opinano le difese che il D.lg.vo 7.7.2011 n. 121, attuativo tra l’altro della direttiva europea 2008/99/CE avrebbe introdotto una norma – la contravvenzione di cui al1’art. 727 bis c.p, – in rapporto di specialità “bilaterale” vuoi con il delitto di ricettazione vuoi con quello di furto di animali appartenenti a specie selvatiche protette, in quanto dotata di elementi specializzanti, con la conseguenza che il caso in esame, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., sarebbe applicabile la nuova fattispecie incriminatrice più favorevole.
Tale tesi è erronea e va disattesa.
È noto che il D.lg.vo 121/2011 ha dato attuazione – anche – alla Direttiva 2008/99/CE, che si propone come obiettivo la tutela dell’ambiente naturale e delle specie animali e vegetali protette. II decreto ha introdotto la nuova fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 727 bis c,p. che, sotto la rubrica “uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette”, sanziona “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque fuori dai casi consentiti, uccide, cattura, detiene esemplari appartenenti ad una specie animale selvatica protetta … salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari ed abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”. Deve escludersi che la nuova disciplina sia idonea a precludere l’applicazione del c. d. “furto venatorio”, per cui è processo.
La presenza della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” è invero di per sé sufficiente a far prevalere fattispecie interferenti punite più severamente, quale è, senza dubbio, l’ipotesi del furto, laddove è pacifico che la fauna selvatica resta pur sempre patrimonio indisponibile dello Stato.
Non è revocabile in dubbio che la clausola di riserva operi nel senso cennato ove si ponga mente, tra l’altro, ad alcuni aspetti della legge sulla caccia (l. 157/92, cit.), tuttora pienamente vigente. La legge n. 157/92 ha espressamente escluso l’applicabilità degli artt. 624, 625 e 626 c.p. nei casi disciplinati dall’art. 30 prima parte e 31, stessa legge. Si tratta di fattispecie penali che la giurisprudenza di legittimità ha costantemente interpretato come applicabili ai soli casi in cui l’autore della condotta sia il titolare di licenza di caccia (la quale rende lecito un comportamento altrimenti non consentito); la mancanza dell’abilitazione, invece, fa scattare la responsabilità per furto venatorio (vedi per tutte Cass. pen., sez. IV, 27.5.2044; n. 24352). Si noti che le condotte descritte dalla nuova norma di cui all’art. 727 bis c.p. sono pressoché coincidenti con quelle dell’art. 30 l. 157/92 (che alla lettera b sanziona chi “abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli” appartenenti a specie protette). La presenza della clausola di salvaguardia, e l’assenza di un’espressa esclusione dell’applicabilità della disciplina del furto (come è nel caso della legge sulla caccia) rendono evidente come il c.d. “furto venatorio” sia pienamente configurabile nel caso di sottrazione al fine di profitto di fauna protetta costituente patrimonio indisponibile dello Stato,
E del resto, proprio in ragione dell’esiguità dei casi cui la nuova norma appare attagliarsi (si è fatto l’esempio dell’uccisione colposa di animali fuori dell’ambito dell’attività di caccia), autorevoli commentatori hanno sottolineato come l’ambito di applicazione del reato, con riferimento agli esemplari faunistici, sia alquanto angusto, e dunque non tale da rafforzare in modo significativo la tutela penale dell’ambiente animale, siccome richiesto dalla direttiva europea.”
Quindi, non solo il Tribunale di Torino conferma che l’art. 727bis non prevale – come ha sostenuto fino ad oggi qualcuno – sui già previgenti reati in materia venatoria, ma conferma a chiare lettere nel contempo che oggi si applica perfettamente ancora il “furto venatorio” nei casi di “bracconaggio totale” come da noi da sempre sostenuto in ogni sede seminariale ed editoriale e da molti altri (compresi alcuni organi di polizia giudiziaria ambientale) contestato con decisione.
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Una sentenza che coglie in pieno quanto da tempo si scrive sulle pagine di questa testata giornalistica on line sulla imprescindibile necessità di una tutela effettiva della fauna selvatica oggetto di bracconaggio, sia nella sua qualità di patrimonio indisponibile dello Stato che di animale in sé e per se, per cui si auspica che in futuro siano contestate anche le ipotesi delittuose inerenti il sentimento per gli animali a parere di chi scrive pienamente violate nei fatti descritti (titolo IX bis ‘dei delitti contro il sentimento per gli animali’ art 544 bis e ss c.p.), in linea con il volere del legislatore comunitario, dell’opinione pubblica nonché con il quadro giuridico nazionale di protezione degli animali, da cui emerge ancora una volta che purtroppo la novella legislativa di cui all’art 727 bis c.p., lungi dal rispondere a tali necessità, non è altro che uno strumento ingenerante confusione normativa per cui solo in giudice accorto, attraverso indagini accurate anche in collaborazione con le associazioni di protezione ambientale e degli animali potrà davvero permettere quegli obiettivi di salvaguardia efficace oggi di rilievo comunitario.
Maurizio Santoloci e Carla Campanaro
Fonte:
http://www.vigilanzambientale.it/index.php