Salivamo sul tetto e ci sdraiavamo a terra sul pavimento ancora tiepido. Ad aspettare la tempesta perfetta.
Oramai lo sapevamo dal pomeriggio quando era la notte giusta. Si sentiva nell’aria. Almeno, noi avevamo imparato a riconoscerne i segni. Così ci cercavamo con gli occhi, l’adrenalina sotto la pelle scura di settimane al mare, tonica dei nostri venti anni, di desideri e labbra e mani e sogni da conoscere. Passavamo la fine del giorno a scrutare il cielo. Era fondamentale che non si alzasse il vento. Che l’aria fosse immobile, piatta, il mare grigio chiaro come il cielo sbiadito da quel sole bianco, fisso e implacabile. Scrutavamo l’orizzonte. A volte da lontano vedevamo formarsi trombe d’aria sul mare. Non era un buon segno. Il mare si agitava, l’aria si rinfrescava e si faceva tesa, le nuvole si addensavano fino a trovare un posto in mezzo al cielo dove stringersi così forte da scoppiare a piangere come a volte fanno i bambini quando si fanno i dispetti. Altre volte invece si fermavano sulle montagne, immensi bianchi cumuli di panna montata sprecata. Era necessario che non accadesse niente invece fino a sera. Che il sole ritagliasse a caso un buco in quella tela grigia in cui infilarsi di nascosto, incapace delle sue magie da trasformista che tutti aspettano al tramonto. Che quella tela grigia diventasse nera, vuota di stelle e luna dimentiche di sorgere come la domenica che le sveglie tacciono e si può dormire.
Cenavamo in silenzio. Le gocce di sudore stese a formare un velo sui corpi inquieti in cerca d’aria nell’aria ferma gravida di promesse. Poi arrivava. Un brivido, un secondo, la pelle d’oca. Le felpe e i jeans già pronti, nascosti nell’armadio per scaramanzia. Ci vestivamo in fretta e in fretta salivamo la scala in ferro traballante di ruggine e di anni che brontolando, come i nostri “vecchi” cui questo nostro rito, non a torto, non piaceva, ci consegnava al cielo aperto. In realtà no, non sono certa che a loro non piacesse. Anzi, credo che sotto sotto in qualche modo ci invidiassero. Che quella elettricità che lentamente violentava l’aria fino a saturarla, i capelli crespi sollevati al cielo uno per uno quasi a chiamarli, entrava traditrice a prender loro quelle memorie e ansie dimenticate nel tempo della vita, della maturità, della ragione sopra l’incoscienza. Che quei segni che noi registravamo smaniosi e irrequieti li conoscevano bene anche loro, che di proposito dimenticavano, luna e stelle rimaste a dormire, di tirar giù i panni stesi ad asciugare, le sedie, i tavoli da chiudere e legare insieme. Per aver scuse per poter salire. Perché sì, era pericoloso. Perché arrivava piano il vento come una brezza tesa e piano tendeva forte il cielo come un arco. In alto in pochi istanti spazzava via la notte nera riempiendola di stelle e luna così vivide e vicine da aver paura di toccarle e romperle. Poi si fermava. Come a tirare il fiato per prendere la mira – noi tiravamo il fiato insieme. E scoppiava l’urlo.
Il vento arrivava così forte e violento da staccarci quasi dal suolo, le mani nelle mani a fare resistenza, gli occhi socchiusi, rotto il respiro, le lacrime strappate agli angoli degli occhi, le labbra schiuse su un sorriso misto di gioia e certezza e di paura. E durava un tempo infinito. Strappando ruggiti potenti al mare e sospiri affannati agli alberi e alle cose, alle case, tintinnando sui vetri e le ringhiere, condannando con violenza senza appello tutte le cose libere, senza radici, senza fondamenta. Durava a volte fino all’alba e poi ancora tutto il giorno, che ci trovava per strada stavolta, a sfidarlo in piedi, ancora mani nelle mani, labili surrogati alle radici. Altre volte no. Altre volte durava poco più del tempo di sentirci forti e vittoriosi e invincibili. E prepotenti boati spezzavano quell’urlo che si era fatto musica preannunciando la fine delle nostre attese. Sì perché c’era di più della sfida, dell’orgoglio, della potenza, di quelle mani senza radici a combattere e dominare; c’era la resa. La resa allo spettacolo del cielo divorato dalla luce dei lampi a fare giorno la notte, delle nuvole veloci come treni in corsa a portarsi via la luce delle stelle, dei fulmini a squarciare il velo spesso delle nubi e i tuoni a inseguirli a far tremare le ringhiere. Eppoi l’acqua. L’acqua prima singhiozzi, a spruzzi dispersi e dissipati dal vento ancora indomito e poi finalmente a scroscio, diluvio di pioggia a gocce grosse e fitte e dense e fredde a spegnere il vento, la rabbia, la tensione. A tessere un magico sipario di cristalli e argento sulla pace di una sconfitta.
Perdevamo tutti. Tutti noi le mani si slacciavano e correvamo in casa a ripararci carichi d’acqua nelle ossa fredde. Perdeva il vento che aveva vinto tutto tranne noi. E la tempesta era perfetta. Come la luce limpida del giorno dopo. Come il canto lento e cadenzato del mare nel silenzio del mattino dopo.
Arrendersi.
Arrendersi dopo aver lottato, mano nella mano.
Dopo aver atteso insieme la tempesta.
Arrendersi e farsi travolgere. Insieme.
Il giorno dopo, la luce pulita e il sole.