L’omertà uccide anche la speranza.
Non solo vite, ma anche la verità e la memoria vengono soffocate dal silenzio complice, dimostrando che la mafia uccide la possibilità stessa di un futuro libero dalla sua influenza.
Ne abbiamo parlato con la criminalista Katia Sartori:

- Qual è l’impatto più significativo dell’omertà sulla società civile, al di là del suo ruolo nel mantenere il potere mafioso?
L’impatto più significativo sulla società civile è la diffusione della cultura del silenzio e della paura, che paralizza la capacità -in parte o in toto- di affrontare la criminalità organizzata. L’omertà crea un muro di silenzio che rende difficile denunciare crimini e attività mafiose; quindi, non è solo un problema legato alla mafia, ma è un problema strutturale che minaccia la società civile, la democrazia e la giustizia, creando un ambiente dove la paura e il silenzio prevalgono sulla verità e sulla collaborazione con le istituzioni.
- L’omertà è una regola portante di Cosa Nostra, in che misura può essere considerata non solo una strategia di controllo criminale, ma anche una componente profondamente radicata della “cultura mafiosa”, che come società dovremmo impegnarci a estirpare, e quali sono le implicazioni di tale approccio per la lotta alla mafia?
L’omertà, più che una semplice strategia, è un pilastro fondamentale della cultura mafiosa, profondamente radicata nelle dinamiche di Cosa Nostra e in altre organizzazioni criminali. Il suo superamento non può limitarsi a interventi repressivi, ma richiede un approccio che coinvolga la società civile, la cultura e l’educazione per estirpare questa mentalità. Le implicazioni sono enormi: una lotta efficace alla mafia passa attraverso la trasformazione culturale che mina le fondamenta dell’omertà.
Perché l’omertà non è solo silenzio, ma è un meccanismo di controllo sociale non democratico, dove la paura e il timore di ritorsioni sostituiscono la volontà di una società libera e indipendente. Essa riflette una visione del mondo in cui la lealtà alla “famiglia” mafiosa prevale sulla legalità, alterando la percezione del bene comune e diventando una norma sociale, un modello di comportamento che viene tramandato e interiorizzato. La lotta all’omertà non può essere limitata alla repressione, ma richiede un approccio olistico che coinvolga l’educazione, la cultura, il sostegno alle vittime e il rafforzamento delle istituzioni, mirando a trasformare la mentalità mafiosa in una cultura di legalità e responsabilità civile.
- La mancata denuncia di una notitia criminis, quando non obbligatoria per legge, non comporta conseguenze legali dirette; quale dovrebbe essere la spinta principale per un cittadino a denunciare un crimine di cui è venuto a conoscenza?
La principale spinta per un cittadino a denunciare un crimine, anche quando non obbligato dalla legge, dovrebbe essere il senso di responsabilità civica e il desiderio di contribuire alla giustizia e alla sicurezza collettiva. Nonostante l’assenza di conseguenze legali dirette per l’omessa denuncia, la collaborazione dei cittadini è fondamentale per il corretto funzionamento del sistema giudiziario. La denuncia può portare dapprima all’accertamento della verità e successivamente alla probabile punizione dei colpevoli, con il possibile ristoro di chi ha subito il danno. Anche se non si è direttamente coinvolti, denunciare un crimine può contribuire a rendere giustizia a qualcun altro e può aiutare anche a prevenire che lo stesso reato venga commesso di nuovo, proteggendo così la comunità da ulteriori episodi analoghi.
- In quali specifiche circostanze la legge italiana impone al cittadino che non riveste qualifiche particolari (ad esempio, di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), l’obbligo di denunciare una notizia di reato, e quali sono le eventuali conseguenze legali in caso di omissione?
In Italia, un cittadino comune, non rivestendo qualifiche particolari, ha l’obbligo di denunciare un reato solo in casi specifici, principalmente quando viene a conoscenza di un delitto contro la personalità dello Stato, come attentati, terrorismo, spionaggio politico-militare, o stragi e inoltre, sussiste l’obbligo se si riceve denaro o cose provenienti da un delitto. La legge prevede il reato di omessa denuncia per il comune cittadino anche se più severo per i pubblici ufficiali.
- La paura di ritorsioni o gravi conseguenze personali o familiari può costituire un’esimente valida per il cittadino che, pur avendo un obbligo legale di denuncia, omette di presentarla?
La paura, il timore di ritorsioni, di essere coinvolti in pericolose vicende o di essere sanzionati, fanno parte di un coacervo di sentimenti umani che porta le persone a essere riluttanti nel rendere informazioni di interesse collettivo spendibili dall’autorità giudiziaria. Ma questo non può essere motivo di giustificazione morale ne è giustificata dal legislatore. La legge prevede sanzioni penali per l’omessa denuncia, anche per il cittadino comune; quindi, si è data una chiara priorità.
- Se passasse la logica che la paura possa costituire un’esimente dovremmo estenderla anche a chi, pur non essendo affiliato a organizzazioni mafiose, favorisce la latitanza di un boss. In che misura questo comprometterebbe l’efficacia della lotta al crimine organizzato?
Favorire la latitanza di un boss, anche per paura, può compromette seriamente la lotta alla criminalità organizzata. La paura, infatti, può creare una “omertà diffusa” che impedisce la collaborazione con le forze dell’ordine e la raccolta di informazioni utili, rallentando e indebolendo l’efficacia delle indagini e delle operazioni di contrasto. La latitanza stessa permette al boss di continuare a esercitare il suo potere e la sua influenza, mantenendo vive le attività illecite e prosperando sul territorio. Pertanto, la paura, pur essendo un sentimento umano, può avere un impatto devastante sulla lotta alla criminalità organizzata, creando un ambiente favorevole alla latitanza e all’impunità dei suoi sodali.
- Perché il cittadino – che probabilmente per paura non denuncia un reato per il quale non ne ha l’obbligo – non incorre in nessuna sanzione, mentre un pubblico ufficiale, che pure può provare le stesse paure, commette un reato?
- La paura è un’emozione primaria e ha una funzione adattiva: protegge l’individuo di fronte a un pericolo o a una minaccia, reale o immaginaria che sia. Il pubblico ufficiale però, giura attraverso una formula solenne con cui egli si impegna a svolgere le proprie funzioni con lealtà, diligenza, nel rispetto della legge e dell’interesse pubblico. Il giuramento, quindi, prevede l’impegno, la fedeltà alla Repubblica e al suo Capo, all’osservanza della Costituzione e delle leggi, e all’adempimento dei doveri d’ufficio con coscienza ma soprattutto con diligenza.
- Lei si è occupata e si sta occupando, di casi particolarmente complessi e delicati che riguardavano la criminalità organizzata. Non ha mai avuto paura di affrontare queste tematiche?
Giovanni Falcone diceva: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.
Ecco, questa è una delle sue citazioni che preferisco. Se guardo al mio passato, posso dire che seppur esistano poche cose al mondo delle quali potrei aver paura, non mi condizionano. Il coraggio non mi è mai mancato soprattutto per portare avanti le questioni in cui credevo. Non mi giro mai dall’altra parte, anche se ho paura.
Potrebbe raccontare un episodio specifico legato alla sua professione in cui ha provato un profondo timore per sé stessa o per la sua famiglia? Se sì, come ha affrontato e gestito quella situazione, sia a livello professionale che personale?

Sia per la questione “Alessio e Svetonio” sia per la questione “Massimo Gentile”, non è mancata da parte mia una posizione chiara, netta e precisa contro l’organizzazione. Quindi sono perfettamente consapevole di non essere tra le “grazie” dei passati e attuali “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro. Ma è stato con la morte improvvisa di Armando Palmieri che la paura si è manifestata alla mia porta. Anzi, per essere più precisi, alla mia cassetta delle lettere. Sono stata barricata in casa per 10 giorni e nei giorni successivi, nonostante la paura fosse vivida e presente -anche solo quando mi recavo a buttare la spazzatura- ho maturato l’idea che dovevo rendere partecipe delle informazioni avute l’autorità giudiziaria che in quel periodo si stava proprio occupando delle delicatissime informazioni rese dallo stesso Armando. Munita di chiavette usb, appunti, documenti, manoscritti, registrazioni e copie forensi dei miei dispositivi telefonici, ho fornito loro un dettagliato resoconto di tutta l’attività che avevo fatto con lui e il suo legale. Di tutte le informazioni, dei nomi e cognomi delle persone coinvolte.
Nel corso della mia vita professionale ho ricevuto intimidazioni e neanche tanto velate minacce di morte e quando mi reco in Sicilia, mi attengo ad alcune disposizioni, ma convivo con la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta, per amor di verità e giustizia.
Ne è valsa la pena?
Vede, onorare le vittime di mafia significa anche questo: noi non dovremmo ricordare le vittime solo nelle occasioni pubbliche e ufficiali. Noi dovremmo onorare ogni giorno il loro sacrificio, facendo la cosa giusta per noi e soprattutto per quelli che verranno. Anche se abbiamo paura.